Ispiratomi dalle melodie di Willie Nelson e dai racconti davanti al fuoco.
ALFRED
WILSON
Raccolse
i fogli nella cartella. Si alzò e uscì dall’ufficio. Chiuse la
porta e tirò un sospiro di sollievo,
come faceva sempre da dieci anni.
Un’altra
giornata era andata.
Prese
l’ascensore (erano solo due piani, ma si sentiva stranamente stanco
quella sera) e scese fino al parcheggio
della ditta per cui lavorava.
Entrò
in auto e partì verso casa, pensando alla bella Lilith che lo
avrebbe accolto a braccia aperte sulla
soglia della porta, gli avrebbe dato un bacio, lo avrebbe fatto
sedere sulla poltrona di pelle del soggiorno
e gli avrebbe versato un buon bicchiere di Whiskey canadese.
Accese
la radio, per far passare più in fretta i quaranta minuti del
viaggio. Davano una dolce e melodiosa
canzone di Willie Nelson, uno dei suoi cantanti preferiti.
All’incrocio
tra la ventisettesima e la Berker ebbe una strana sensazione, ma non
ci badò.
Arrivò
a casa poco prima delle nove. L’illuminazione era strana, più
debole del solito. Alzò gli occhi
verso un lampione e vide un tizio, su una scala, che lo stava
accendendo.
Accendendo?
Ma
l’illuminazione non era elettrica e automatica?
Il
tizio si voltò verso di lui:
“Salve,
Mr Wilson, è arrivato anche lei, infine!”
Chi
diavolo era? E come faceva a sapere il suo nome?
“È
stupito, vero?” continuò il tizio “Forse non se ne rende ancora
ben conto, ma capirà, alla fine.”
“Ma...
ma lei chi è?”
“Non
si ricorda? Già, forse era troppo piccolo. Sono morto quando ancora
lei aveva cinque o sei anni,
Mr Wilson, o posso darti del tu, Alfred, come facevo allora?”
“Cosa?
Morto?! Ma lei... lei deve essere pazzo!”
Si
avviò verso la porta di casa, cercando di non pensare a quel matto
appeso al lampione.
Lilith
non c’era ad aspettarlo come faceva sempre. Forse non aveva sentito
la macchina.
Fece
per infilare la chiave nella serratura, ma la serratura non c’era.
Mentre
si stava chiedendo se avesse sbagliato casa la porta si aprì.
“Ciao,
caro. Che piacere rivederti.”
Non
era Lilith.
“Allora,
non dai un bacio alla tua cara
mammina?”
“Mamma...
ma tu...”
“Sì,
figliolo. Sono morta tanto tempo fa. Ma ora siamo di nuovo insieme.
Entra.”
Alfred
entrò, nella confusione più completa della sua mente. I mobili, le
stanze... tutto era come quando
era bambino.
“No...
impossibile... sto sognando... adesso mi sveglio e...”
“Ben
arrivato, Alfred.”
Si
voltò verso il camino, da dove proveniva la voce. Vide suo padre,
suo nonno e la nonna che stava lavorando
a maglia.
Si
diede un morso sulla lingua che lo fece lacrimare. Non stava
sognando.
Si
sedette vicino al camino. Si rese improvvisamente conto della sua
nuova condizione. Fu come una
rivelazione.
Suo
padre gli stava spiegando che lì c’erano proprio tutti, dallo zio
che era morto quando lui era nato
al venditore di ghiaccio che gli portava le caramelle quando era
piccolo. Ma la mente di Alfred andò
alla sua Lilith, che non lo avrebbe più atteso sulla soglia di casa.
Bussarono
alla porta. Erano le dieci passate.
Lilith
andò ad aprire. Era preoccupata per il ritardo di Alfred.
“Buonasera,
signora. È lei la moglie di Alfred Wilson?”
“Sì...
è successo qualcosa? Lei chi è?”
“Sono
l’ispettore Jenkins, del quindicesimo distretto.”
Le
mostrò il distintivo.
“Devo
darle una brutta notizia. Suo marito è stato coinvolto in un
incidente, all’incrocio tra la ventisettesima
e la Berker. Non c’è stato nulla da fare. Mi dispiace.”
Lilith
restò immobile, come se ciò che aveva sentito non la riguardasse.
L’ispettore
fece alcune domande di routine, le disse dove avevano portato il
corpo e la lasciò.
Lilith
si sedette sulla poltrona di pelle del soggiorno, con un bicchiere di
Whiskey in mano, lo sguardo
fisso davanti a sé.
“Alfred...”
mormorò.
Cesare
Bartoccioni
7
febbraio 1992
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