Capitolo decimo
IL GIOCOLIERE
L’uomo dalla mantella era chino sull’odalisca,
le accarezzava la fronte, le tempie, i neri capelli. Il velo che fino a quel
momento le aveva occultato il volto in una magica impalpabile trasparenza se n’era
volato via, nell’esplosione. L’uomo non poté fare a meno di soffermarsi, pur
nella critica situazione in cui si trovavano, sulle labbra carnose e
aggraziate, sulle guance lisce e sul mento delicato, sul bel naso grande e
regolare che dava il tocco finale di perfezione al dolce viso che ora, lì, sul
nudo terriccio della spianata del circo, non dava segni di vita. Le ferite
riportate erano numerose e diffuse su tutto il corpo. Braccia, gambe, torso…
nulla sembrava essersi salvato nella deflagrazione. Macchie di sangue erano
sparse e estese per tutto il terreno circostante. L’uomo si rese conto di
essere anch’egli ferito, ma la sua esperienza nel Transvaal lo aveva
immediatamente rassicurato. La sua lacerazione al braccio sinistro era poco più
d’una escoriazione. Le ferite dell’odalisca, invece, sembravano essere d’una
gravità ben più preoccupante. Barakuta, miracolosamente illeso, annusava
guaendo la sua padrona.
L’uomo iniziò a colpire con il palmo delle
mani le guance della ragazza, ripetutamente, ripensando nello stesso momento agli
eventi che si erano dipanati come in un vortice infernale dacché avevano
lasciato la catapecchia del mimo.
L’uomo aveva controllato la Webley, ricaricandola
del colpo sparato dall’odalisca e, impaziente dopo la rivelazione dell’istrione
sordomuto, si era fiondato verso l’area al centro dei carri.
Ma era stato troppo precipitoso. La smania di
ritrovare la sua Stella gli aveva fatto perdere il controllo. E si erano
ficcati nei guai.
“Eccoli! Eccoli!”
Voci rauche e concitate erano spuntate da
tutti i lati. Cinque scimmieschi energumeni nelle loro sgargianti divise rosse,
le cui spalline dorate facevano da grottesco contrappunto alle macchie di
sterco di cammello fresche e antiche che quelle uniformi punteggiavano, si erano
slanciati contro di loro, impugnando armi improprie della più varia natura.
L’uomo si era fermato, riparando
istintivamente con il braccio sinistro l’odalisca, tenendola dietro di sé come
a proteggerla, mentre con la destra aveva estratto il revolver e dato il via
alle danze.
La prima palla aveva centrato l’assalitore
più vicino dritto in fronte, facendogli esplodere la nuca in mille pezzi. Altri
due erano quasi giunti a sfiorare l’uomo e la ragazza con i loro coltellacci,
ma due colpi in rapida successione, con l’enorme potere d’arresto delle
pallottole calibro .455 dirette ai loro petti, li avevano respinti, senza vita,
a due metri di distanza. Il quarto aveva ricevuto il suo benservito a
bruciapelo, sotto il mento, e la testa gli si era staccata di netto dal busto. Il
quinto, vista la dipartita dei suoi compari, aveva interrotto l’attacco, gettato
a terra il forcone ancora sporco del letame a cui, evidentemente, si stava
dedicando prima dell’apparizione dei due ricercati, e aveva iniziato ad
arretrare. E qui l’uomo dalla mantella aveva commesso un imperdonabile
errore.
Senza riflettere, aveva spedito i suoi due
finali messaggi di morte a saldare il conto all’ultimo aggressore. Nel tempo
che le pallottole disegnavano la loro traiettoria verso lo stomaco dello
sfortunato inserviente, mandandolo a morire esangue sulla montagna di sterco alle
sue spalle, l’uomo si era reso conto di aver contravvenuto alle due basilari
regole della sopravvivenza nei conflitti a fuoco. Aveva sprecato le munizioni
su un nemico in fuga, e aveva vuotato il tamburo.
E l’avrebbe pagata cara.
Aveva fatto scattare freneticamente il
castello della Webley, l’estrattore aveva prontamente espulso i bossoli, e a
due a due, con sicurezza, l’uomo stava estraendo le pallottole dal taschino
della mantella e ricaricando la rivoltella.
“Attento!” La voce dell’odalisca, alle sue
spalle, l’aveva avvisato del pericolo che, con la coda dell’occhio, l’uomo
aveva già percepito a dieci passi di fronte a loro.
Un ragazzo ben piazzato, polsini e gambali di
nero cuoio, un corpetto biancastro pieno di decorazioni argentee, stava facendo
mulinare, in una perfida giocoleria, degli oggetti ovali che l’uomo dalla
mantella aveva immediatamente riconosciuto.
Erano granate.
L’uomo aveva appena inserito nel cilindro del
revolver le ultime due cartucce, aveva richiuso la Webley, e la stava puntando
verso il nuovo venuto, il quale nello stesso tempo aveva iniziato a togliere la
sicura, in rapida alternanza, alle sue bombe a mano che, continuando nel
mulinello, aveva iniziato a lanciare verso di loro.
L’uomo aveva sparato tre colpi in rapidissima
successione, a due mani, alla disperata ricerca della massima precisione: la
Webley poggiata sulla sinistra, il cui pollice armava il cane, la destra
completamente dedicata alla stabilità dell’indice destro che premeva il
grilletto. Il primo proiettile aveva raggiunto il giocoliere al petto, un
biglietto di sola andata per l’inferno, il secondo aveva intercettato in volo
una delle due granate che il ragazzo aveva fatto in tempo a scagliare,
rispedendola al mittente, dove era esplosa accanto al corpo già trapassato,
sparpagliandone le membra in un nebbia vermiglia. Il terzo, però, aveva mancato
il secondo ordigno, che era caduto con un tonfo sordo alle spalle dell’odalisca.
L’uomo aveva cercato di far scudo con il suo
corpo alla ragazza, traendola di nuovo dietro di sé con il braccio sinistro, ma
l’innesco era già scattato, e la corta miccia interna aveva già iniziato il suo
mortifero sibilare.
L’esplosione era stata assordante, la polvere
sollevata dal terreno aveva offuscato la vista dell’uomo, lo spostamento d’aria
l’aveva fatto ricadere all’indietro.
Ora era lì, sopra la ragazza, cercando di
rianimarla, senza alcun successo.
Non c’era tempo da perdere. La sua Stella
avrebbe dovuto aspettare.
L’uomo ricaricò la Webley; non avrebbe
commesso lo stesso errore due volte, e si rese conto di essere ormai a corto di
munizioni. Delicatamente, quindi, fece scorrere le braccia sotto le ginocchia e
il collo dell’odalisca, la sollevò con dolcezza e se l’avvicinò al petto. Lasciò
l’area centrale dei vagoni del circo e iniziò a percorrere, evitando di
sobbalzare ma con passo spedito, il perimetro esterno, con il fedele cane da
tasso trotterellante accanto, facendo un lungo giro sulla destra che, in base
ai suoi calcoli mentali, l’avrebbe condotto nell’unico luogo dove, forse,
avrebbe potuto aspettarsi aiuto.
Cesare Bartoccioni, 26 dicembre 2016
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