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BULLI E PUPE... D'OLTRECORTINA
BULLI E PUPE... D'OLTRECORTINA
Prologo
Il
Cenone di San Silvestro era davvero eccezionale. Sul menù argentato
la scritta in nero “Ve
mbincion n bon ann 2015”
dava un tocco d'eleganza all'immensa abbuffata che di lì a poco si
sarebbe dipanata nella gran sala dell'hotel.
Per
me, scribacchino alle prime armi, aver vinto un soggiorno premio in
cotanto lusso per una semplice poesia inviata mesi prima a un
quotidiano locale di Bolzano era
stato un vero colpo di fortuna. Non avrei mai potuto permettermi una
sistemazione del genere neanche a vivere tre vite, quindi non me la
presi più di tanto per essermi perso l'aperitivo nella lounge
servito dalla Melchizédec da 30 litri montata su apposito
ingranaggio da cui l'ambrato Champagne sgorgava nella pila di flute
di cristallo ben ordinata di
fronte ai camerieri che azionavano l'argano come esperti orologiai
svizzeri. Né m'importò molto che, quando finalmente scesi dalla
camera, le ostriche e il vario finger-food fossero già un
evento del passato. L'ispirazione non può attendere, e avevo un
racconto da finire...
I quattro
tavoli
Un po' per amor patrio, e un po'
forse anche per sfizio, avevo ordinato uno spumante italico con cui
avrei pasteggiato per tutta la durata della cena. Iniziai a gustare
lo storione selvaggio marinato con panna agra e caviale, osservando
al contempo, sicuramente per “deformazione professionale”, i vari
commensali. Nei due tavoli
dietro di me due famiglie russe facevano bella mostra di vestiti
d'alta moda, gioielli e Magnum di Champagne con il cui prezzo di
listino io avrei potuto pagarmi l'affitto per sei mesi. I volti dei
due mariti, tuttavia,
erano più da 357 che da Champagne... Sorrisi cordialmente
ricambiando i loro saluti. Per mia comodità, mentalmente li
battezzai Ivan e Michail. Ivan
era un tipo scuro con capelli lunghi, lineamenti marcati e sguardo
profondo con occhi di azzurro ghiaccio; Michail un tipo di mezz'età
avanzata che sarebbe passato assolutamente inosservato se non fosse
stato per l'appariscente moglie, tirata come una corda di violino e
siliconata in modo esagerato rispetto all'esile corporatura. Parlava
italiano, la moglie, ma
le labbra gonfiate le impedivano di pronunciare bene la “p”, le
cambiavano la “v” in “b” e per la “f” non c'era
assolutamente nulla da fare.
In fondo alla mia destra un tavolo
di rumorosi ucraini ostentava gli stessi segni di ricchezza dei
russi. Anche qui
il marito era abbastanza ordinario, giovane biondino cenere
dall'eleganza quasi finnica; la moglie invece era una mora magra e
alta, tatuata dappertutto, tanto che il vestito di pizzo nero si
confondeva con i disegni sulle parti scoperte del corpo. Il
labbro superiore, gonfiato in modo innaturale dal silicone, la faceva
sembrare, scusatemi il
francesismo, un culo di gallina intrappolato in una ragnatela.
“Oohh, auguri eh!!! Bon anno!!!”
Il brindisi, urlato dal tavolo in fondo a sinistra, era partito da un
imprenditore toscano, evidentemente arricchitosi da poco, che nei
giorni precedenti si era diviso tra il cibo e le telefonate in
azienda per assicurarsi che la merce fosse stata spedita. La
spediscono sicuramente, il 31 dicembre, vai tranquillo...
Il botto della Jeroboam da 3 litri del toscano riempì tutta la sala.
Lo champagne schizzò dal collo della bottiglia e finì nei flute dei
suoi otto commensali.
“Auguri, au'uri!!! Bon anno!!!! Oohhh, bon anno!!!!”
Erano le nove
e mezza...
Mi
unii al suo brindisi con un cenno, il
suo volto rubicondo era troppo felice per contraddirlo.
Intrighi
Durante la capasanta al daikon e tartufo bianco successe qualcosa che
mi fece rizzare le antenne.
Il biondino cenere ucraino si alzò
e venne verso Michail, fermandosi in piedi a due metri dal tavolo, il
cellulare nella destra. Fece un cenno al russo, che subito lasciò
la sedia e gli fu accanto. I
due parlottarono un po' tra di loro, l'ucraino ora al telefono, ora
rivolto a Michail. Era evidente che si conoscevano, in un modo quasi
intimo, anche se nei giorni precedenti si erano sempre tenuti a
distanza. Mentre rimuginavo su questo strano comportamento,
palesemente fuori luogo nel
contesto del veglione, Ivan si unì ai due, i quali lo accolsero con
lo sguardo che hanno i sottoposti quando entra in ufficio il
dirigente. Il trio era a poco più di un metro da me, e potevo
sentire quello che si dicevano senza alcuno sforzo. Purtroppo non
parlo russo, quindi non capii nulla. Capii solo una parola, una
parola internazionale: “Embargo”. Ivan si accorse che li stavo
guardando e mi fulminò con i suoi occhi di ghiaccio. Ghiaccio freddo
come le piste di Cortina d'Ampezzo su cui avevo sciato nei quattro
giorni del mio soggiorno. Ghiaccio spietato come quello dei crepacci
dolomitici.
Abbassai subito lo sguardo, fingendo di dedicarmi ai tortellini
ripieni di pernice rossa in consommé al Gewürztraminer, uva e oro,
che nel frattempo erano stati serviti. Quando ebbi di nuovo il
coraggio di alzare le palpebre Ivan non mi guardava più, ma sentii
netta la sensazione che, con quell'unica parola che avevo capito,
avevo capito troppo.
Décolleté
I paccheri ripieni di astice con zucchine e tartufo nero passarono
lisci alle ore dieci, quando le tre tavolate dei russi e degli
ucraini stapparono le bottiglie sincronizzate sulla mezzanotte delle
loro nazioni. A memoria mi sovvenne il dubbio che tra Russia europea
e Ucraina vi fosse comunque un'ora di scarto, ma ebbi altresì il
presentimento che il brindisi non fosse tanto per il nuovo anno,
quanto per qualcosa di importante che il vertice tenutosi di fronte a
me poc'anzi aveva conseguito.
Più tardi, già nel nuovo anno, scoprii che quel mio sesto senso non
si era sbagliato.
Il sorbetto al sambuco, menta e Champagne fu eccezionale. Ma il
piatto successivo mise a nudo in modo impietoso la mia inadeguatezza
per tale ambiente ricercato. Fino a quel momento, infatti, ero
riuscito a cavarmela abbastanza bene destreggiandomi con un po' di
fortuna tra capesante, topinambur, scorzonere e astici. Purtroppo per
me, però, il filetto di vitellino cotto al rosa con salsa all'aceto
balsamico, patate al latte e panaché di verdure nascondeva
un'insidia che si sarebbe rivelata fatale. Preso dall'atmosfera di
rilassato divertimento che si era andata diffondendo nella sala
durante gli ultimi minuti, con l'imprenditore toscano che aveva
appena stappato una Mathusalem da ben 6 litri continuando a urlare
“Bon anno!!! Bon anno!!!!”, afferrai tra il pollice e l'indice
della mia mano destra con noncuranza e con un'eccessiva forza il
ravanello di guarnizione del vitellino.
Era foie gras allo cherry.
La polpettina di fegato d'oca mi si strizzò tra le dita, con la sua
parte superiore che iniziò il volo parabolico terminando, precisa
come una bomba intelligente, nel perfetto centro del décolleté
della moglie di Michail.
Avrei voluto sprofondare sotto il tavolino, o nascondermi nel
cestello dello spumante. Non mi restò altro da fare, ad ogni modo,
che sollevare leggermente gli occhi verso la donna, supplicandole
pietà con lo sguardo. Mi vedevo già ingabbiato in una cassa di
cemento, condannato a morte implacabile per lesa siliconeità con
foie gras creduto ravanello.
Bell'affare avevo fatto, a inviare la poesia. Avrei dovuto
stracciarla e bruciarla appena scritta, tanto non era neanche un
granché. Tin Man, scritta in inglese, probabilmente al
quotidiano non l'avevano neanche capita, e magari per questo
l'avevano premiata, per non rischiare di passare per bifolchi...
Con mia sorpresa, però, Michail accolse l'increscioso incidente con
un ghigno che non mi sembrò per nulla maligno. Ivan dietro di me se
la rideva spassandosela. Ma fu la reazione della donna a sconcertarmi
di più. Si raccolse il foie gras dalla scollatura con il dito medio
della mano destra, e se lo portò alla bocca succhiandolo mentre
socchiudeva gli occhi con sguardo avido.
Cominciarono a tremarmi le gambe. La donna si alzò e venne verso di
me. Le ginocchia cominciarono a ballarmi. La donna si chinò
avvicinandosi al mio volto. Il mio corpo si immobilizzò
completamente. “Addio, scribacchino da quattro soldi.” pensai “La
cassa di cemento ti aspetta. Esprimi un ultimo desiderio.” La donna
posò le sue labbra gonfie sulla mia fronte, in un bacio che voleva
essere di consolazione o di comprensione. Poi con un sorriso
sarcastico (o almeno così mi sembrò, ma in quel rigonfiamento
avrebbe anche potuto essere ironico...) se ne tornò al tavolo. La
sensazione del contatto con le sue labbra mi fece tornare in mente un
pupazzo di gomma che avevo da piccolo.
La pupazza tornò quindi a sedersi di fronte al marito, e l'incidente
finì così. Almeno così speravo.
Il parfait al panettone con zabaione, zenzero, datteri e torrone di
Alicante fugò ogni paura e ogni dubbio, e dopo aver brindato al
nuovo anno, stavolta finalmente a mezzanotte, me ne tornai in camera
a dormire.
Anno nuovo,
vita nuova...
Il primo giorno del nuovo anno, alle ore sette e trenta, in
accappatoio e costume, mi apprestai a scendere nella piscina termale
dell'albergo. Mi preparavo a godermi la Spa tutto da solo, sicuro che
a quell'ora, il primo gennaio, saremmo stati in giro solo io e i
gatti randagi di Cortina.
Purtroppo per me, anche qualcun altro era sicuro che non ci sarebbero
stati occhi indiscreti in giro a quell'ora.
Uscii dall'ascensore al piano -1, le porte si aprirono silenziose,
camminai a passi felpati nelle morbide pantofole fornite dall'hotel,
e giunto di fronte alla saletta da tè prima dell'ingresso alla Spa
mi fermai di colpo.
Non c'eravamo solo io e i gatti randagi di Cortina. C'erano anche i
cani randagi d'oltre...cortina.
Erano tutti e tre nella saletta vuota: Ivan, Michail, e l'ucraino
biondo cenere. Ancora nei vestiti da sera del veglione, seduti
intorno a un basso tavolo. Sul tavolo, una grossa valigia, piena di
mazzi di banconote da 100 dollari. Il sorriso beffardo di Benjamin
Franklin, ripetuto all'interno della valigia innumerevoli volte,
sembrava volermi dire che il mio destino era ora segnato. Gli occhi
di ghiaccio di Ivan erano fissi su di me, freddi come le piste,
spietati come i crepacci. Gli sguardi degli altri due erano vuoti e
inespressivi, ma pieni di un alone di cieca obbedienza che mi diede
il terrore. Michail teneva in mano, soppesandolo, un grosso orologio
da donna, tutto oro e diamanti.
Io accennai un sorriso, li salutai, e andai a nuotare, sicuro che
sarebbe stato l'ultimo bagno della mia vita.
Invece non successe niente.
Passò il primo giorno dell'anno. Passò il secondo. Il terzo già
ripresi coraggio. D'altra parte, cosa poteva esserci di strano in una
valigia piena di banconote da 100 dollari nella saletta da tè alle
sette e trenta della mattina del primo di gennaio? Niente.
Ghiaccio
Tornai a sciare sulle piste. Stavo migliorando lo stile sempre di
più, tanto da decidere di prendere un “ovetto” per raggiungere
un'alta cima e vedere come sarebbe andata.
Iniziai la discesa, tagliando e curvando, provando a frenare, un po'
a spazzaneve, un po' zigzagando, niente male, pensavo peggio.
Poi il buio.
Venni investito da qualcosa, non seppi mai cosa. Al momento mi sembrò
una valanga.
Mi risvegliai di fronte a un crepaccio, di cui non si vedeva il
fondo. Dietro di me, tre energumeni grossi e rasati, classici tipi da
galera, in tute da sci multicolori che mal si addicevano ai loro
truci lineamenti.
“E così fai furbo, eh?”
L'accento slavo mi gelò il sangue nelle vene.
“Ti imparo io a buttare paté su tette di capo.”
Sì,
certo, le tette del capo, come no? In caso 'ti insegno', non 'ti
imparo'. E
poi non era paté, ma foie gras. Ma
non mi sembrava il caso di iniziare una dissertazione linguistica o
culinaria.
Solo uno di loro parlava, gli altri erano muti come tombe. Come la
tomba dove sarei finito io a breve.
“Adesso tu fai volo, e ti togli da palle, va bene?”
E che devo dirti? No, non va bene?
In
un batter d'occhio mi ritrovai spogliato di tutto, nudo come un
verme, appeso a testa in giù sopra il crepaccio di cui non si vedeva
il fondo, tenuto dai due energumeni muti per le caviglie, uno la
destra, l'altro la sinistra. Il freddo era insopportabile, mi
consolai pensando che sarei morto assiderato prima
di sfracellarmi sul fondo del burrone, dovunque esso fosse,
ma poi quelle bestie avrebbero sempre potuto dire che ero morto dal
freddo...
“Tu troppo ficcanaso, tu troppo sapere.”
Ah, ecco, allora le tette del capo non c'entrano, eh? Magari c'entra
la valigia con i dollari, magari c'entra l'embargo?
“Allora,
dici niente? Ringrazia che non ti facciamo tortura, ringrazia
almeno!”
Pure.
Avrei potuto pregare, avrei potuto dire che non sapevo niente (il che
in effetti era vero, in fondo), avrei potuto promettere, giurare e
spergiurare che non avrei mai raccontato nulla a nessuno, né
dell'embargo, né della valigia, né delle tette al silicone della
moglie del capo, né del foie gras e neanche del paté.
Invece dissi questo: “Ma a voi fanno dei corsi per essere così
cafoni o ci siete nati?”.
Il capo del terzetto mi guardò stupito, poi guardò gli altri due.
Dall'espressione nei loro occhi, almeno da quello che potei percepire
vedendola capovolta, erano rimasti di stucco. Sicuramente non si
aspettavano una reazione così. O forse, più semplicemente, non
conoscevano il significato della parola 'cafoni'...
Il capo riacquistò tuttavia ben presto la sua espressione naturale,
cioè inespressiva. Fece un cenno agli altri due, i quali, ghignando
all'unisono, lasciarono la presa.
Iniziai il volo.
Epilogo
Mi svegliai, infreddolito, madido di sudore ghiacciato, sul letto
della camera del mio albergo.
Sospirai.
Un sogno. Un incubo. Forse la zuppa al borsch della sera prima, anzi
sicuramente.
Mi alzai, mi feci una doccia, e mi preparai a scendere per la
colazione.
Che stupido. Mi ero fatto prendere troppo dalle mie fantasie, come
sempre.
Mi ero sognato tutto, la valigia coi soldi, gli energumeni, il volo
nel crepaccio.
Che stupido. E tutto per aver sentito la parola “embargo”
pronunciata da tre tipi che magari stavano solo parlando di politica,
di economia, o che so io, magari di storia...
Bah.
Me lo meritavo. Anzi. Decisi di lasciar perdere la scrittura per un
po'. Mi sarei dedicato a qualche lavoro serio, almeno per sei mesi...
E avrei stracciato, spezzettato e bruciato ogni copia che avessi
trovato di Tin
Man.
Arrivai al buffet della colazione. Una ciotola di cereali, un
croissant, mi sedetti e ordinai un cappuccino.
Michail
e la moglie erano già al tavolo. Sollevai lo sguardo verso di loro,
accennando un timido saluto, che conteneva le mie scuse per il volo
del foie gras e per i miei pensieri impuri sulle presunte attività
illecite. Michail ricambiò con un ghigno, che non mi sembrò per
nulla maligno. La pupazza mi salutò con la mano sinistra, sul cui
polso riluceva un
grosso
orologio
da donna, tutto oro e diamanti.
Cesare Bartoccioni
5 gennaio 2015
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