Il prestigiatore - capitolo dodicesimo: Il funambolo

Capitolo dodicesimo                                                                                     
IL FUNAMBOLO

Era pericoloso. Un vero serpente. Ma finalmente gli avevano messo il sale sulla coda. Il capitano lo stava aggirando sulla destra, approfittando di una linea di arbusti particolarmente fitti, che delimitavano la radura sabbiosa nella quale la spia, col suo carico di segreti, si apprestava a lasciare il suo solitario bivacco.
Vincent, secondo i piani, avrebbe dovuto attendere al limitare dei cespugli sulla sinistra dello spiazzo terroso dove, alla fine di un estenuante percorso fatto di delazioni, notizie estorte col ricatto e con l’inganno, pedinamenti, cacce notturne e colpi di fortuna, erano riusciti ad arrivare addosso alla loro preda, così vicino come non era mai successo prima.
Il capitano, di lì a poco, revolver in pugno, avrebbe intimato la resa allo sfuggente e oscuro personaggio che, per ordine del Kaiser e nel gioco dei precari equilibri coloniali, stava rifornendo di informazioni, oro e armi i commando boeri nella loro rivolta contro il dominio britannico nel Transvaal. Vincent sarebbe uscito dal suo nascondiglio allo stesso tempo, e la spia sarebbe finita nella rete.
Quattro secchi colpi di pistola automatica e un rapido scalpitio di zoccoli fecero correre un subitaneo brivido freddo su per la schiena del capitano, che accelerò il passo fino a sbucare nella radura.
Al centro del nudo spiazzo, un fuoco spento in un cerchio di pietre bianche, annerite e rossastre faceva salire al cielo una lenta e grigia voluta di fumo, come in un sarcastico saluto di colui la cui unica vestigia d’identità sembrava fissata nei colori ‘imperiali’ dei ciottoli rimasti intorno alla cenere.
Oltre il fuoco del bivacco, il corpo di Vincent giaceva supino, esangue. Il capitano si avvicinò al suo tenente, gli si chinò accanto, gli sollevò il capo. Il sangue che copioso colava dai quattro fori sul petto era la liquida visione della vita che dal corpo gli sfuggiva.
“Sono… sono… uscito… troppo presto… Troppo presto, ca…pi…tano…”. Il filo di voce era appena udibile. Il capitano cercò di scuotere il suo ufficiale. Inutilmente. Vincent era morto.
Il tremolio dell’aria torrida confondeva, nella lontananza, la spia il suo sauro e i suoi segreti.
Il calore asciutto del Transvaal si bagnò del profumo dei fiori e delle spezie, sulla riva del fiumicello dove il bambino giocava felice, quando il suo svago fu interrotto da due robuste mani, la sua vista offuscata da un nero cappuccio, il suo corpo trasportato attraverso un luogo freddo e frusciante. Il bambino si ritrovò, dopo un tempo che era gli era parso infinito, in un antro circolare umido e tetro, dove il grigiore delle pietre era illuminato in modo spettrale da eteree fiaccole disposte sulle curve pareti. Intorno a lui, volti sinistri e severi, neri turbanti, mani che stringevano strani coltelli con sinuose lame a forma di serpente e neri lacci minacciosi. In una nicchia nella parete, dietro di lui, una statua con molte braccia riluceva della livida luce di innumeri ceri. Il bambino sarebbe stato iniziato al crudele rito. Il bambino sarebbe cresciuto. Poi si sarebbe vendicato, senza pietà.
“Capitano. Capitano!”
L’uomo con la mantella si destò di soprassalto. La vista, poco a poco, rimise a fuoco il tempo presente di fronte a lui. L’odalisca aveva il corpo fasciato in più punti, dove prima le ferite dell’esplosione avevano fatto sorgere nell’uomo una purpurea disperazione. La ragazza, tuttavia, sembrava respirare regolarmente, e un certo colorito aveva riacquistato la sua pelle.
Il sergente Drake aveva fatto un buon lavoro.
“Come sta?” La voce dell’uomo dalla mantella suonò cupa e cavernosa, come se si trovasse ancora negli oscuri antri dei thug.
“Ho fermato le emorragie, ho ricucito le ferite più profonde. Dovrebbe cavarsela. Ma deve riposare.”
Il sergente enfatizzò l’ultima parola, come se avesse già letto nella mente del capitano la domanda successiva. Il capitano annuì.
Seguì un lungo momento di silenzio. Il sergente guardò con occhi interrogativi colui che, evidentemente, considerava ancora suo superiore; era chiaro che avrebbe voluto fargli mille domande, ma non avrebbe mai contravvenuto alle antiche leggi della gerarchia militare.
Il capitano era stanco. E il tempo a disposizione per la missione che si era prefissato era poco. Ma, negli occhi del suo vecchio commilitone, sentì tutto il peso del dovere e del comando.
Si raddrizzò quindi sulla sedia dove si era appisolato, si schiarì la voce.
“Che ci fai qui, sergente?”
Il domatore corrugò le sopracciglia. Era palese che avrebbe voluto chiedergli la stessa cosa. Ma rispose prontamente.
“L’ho trovata, capitano.”
Il capitano strabuzzò gli occhi.
“La mia Stella?”
Il sergente allargò le palpebre in un moto di disorientamento.
“Chi?”
Il capitano scosse il capo, e sollevò il palmo della mano destra, come a dire ‘lascia stare’, poi riprese.
“Continua, sergente, chi o che cosa hai trovato?”
Il sergente socchiuse gli occhi, abbassò la voce, e avvicinò il suo volto a quello del suo superiore.
“La spia.”
L’espressione che si dipinse sul volto del capitano aveva tutti i colori dei sentimenti che, subitaneamente, lo avvolsero e avvinsero: dal bianco della sorpresa al rosso dell’ira al nero della vendetta. Gli stessi colori dei ciottoli rimasti un tempo accanto al corpo di Vincent.
Il capitano posò le mani sulle spalle del sergente. La voce gli uscì forzata dallo spasmo di trepidazione che, inarrestabile, gli aveva vinto la gola.
“Chi è?”
Un gemito proveniente dal giaciglio fece volgere gli sguardi dei due uomini sulla ragazza. L’odalisca si era risvegliata.
“Dove… dove… mi trovo…?”
L’uomo dalla mantella si chinò lesto su di lei, la voce ritornò fluida e rassicurante.
“Stai tranquilla. Sei al sicuro. Ma devi riposare.”
“Mio… mio padre…”
“Non ti preoccupare. Tra poco tutto sarà finito. E tuo padre non correrà alcun pericolo.”
La ragazza annuì, persuasa dal tono confortante dell’uomo, quindi chiese dell’acqua, che il sergente le porse in una tazza di legno dopo averla immersa in un secchio di metallo accanto alla spoglia testiera del letto.
La ragazza prese la coppa e ne bevve avidamente.
L’uomo dalla mantella si chinò su di lei, prendendole gentilmente la mano sinistra fra le sue.
“Ascoltami. Tu dovrai restare qui. Non verrà nessuno, sei in un luogo sicuro. Torneremo a prenderti quando avremo ripulito questo posto.”
La ragazza fece un debole cenno affermativo col capo, gli occhi già richiusi. Si riaddormentò.
Barakuta, mostrando di nuovo il livello della sua intelligenza canina, guaì come a conferma d’aver capito, e si accoccolò ai piedi del letto. Il capitano gli sorrise. Si chinò e lo accarezzò. Sarebbe stato un’ottima guardia del corpo. Poi fece un cenno al sergente e uscirono.
Fuori dal carro, controllarono rapidamente le armi. Il sergente armeggiò col proprio revolver, quello d’ordinanza, che evidentemente si era portato con sé dopo la fine della rivolta, dopo la fine del servizio nel Transvaal. Mentre lo caricava, al capitano andò l’occhio su un’incisione sul calcio della Webley, e capì.
“Sei pronto per il giusto castigo, eh, Drake?” Il tono non era né di rimprovero né di approvazione. Era un tono spassionato. Era un tono marziale.
Il sergente sorrise, e con il pollice destro accarezzò le tre lettere intagliate: VLY; Vincent Laurent York. Il loro tenente.
“Questa salderà il conto alla spia, capitano. E sarà come se l’avrà fatto Vincent.”
Il sergente aveva una buona dotazione di munizioni, e rimpinguò le scorte ormai esaurite del capitano.
“Il tempo a disposizione è poco, sergente, ma mentre ci incamminiamo dovrai farmi un breve resoconto.”
I due erano già in movimento. Il sergente annuì secco col capo.
“È presto detto, capitano. Fu un colpo di fortuna. Dopo la guerra, mi provai a seguire le tracce dell’agente segreto del Kaiser, e indizio dopo indizio mi ritrovai a Windhoek. Lì, tuttavia, la spia parve essersi definitivamente volatilizzata; stavo per dichiarare fallita la mia personale missione e ripartirmene alla volta della nostra bella Inghilterra quando, nell’albergo dov’ero alloggiato, venne a farmi visita una ragazza del luogo.”
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Windhoek, dicembre 1903

Il tocco alla porta fu lieve, quasi timoroso. Il sergente Drake si sollevò sul letto appoggiandosi al gomito sinistro, facendo al contempo scivolare la mano destra sotto il cuscino, dove la mantenne impugnando la Webley Mark VI che era stata di Vincent.
“Avanti.”
L’uscio si aprì lentamente, e una giovane ragazza dallo sguardo triste e dall’andatura claudicante entrò. La ragazza, quasi una bambina, volse gli occhi impauriti intorno a sé, quindi alle sue spalle, lungo il corridoio dell’albergo in puro stile coloniale germanico scelto da Drake come base per le sue ricerche. Poi si richiuse la porta alle spalle e ristette in silenzio.
Il sergente pensò, con una punta di disgusto, che si trattasse di uno di quei servizi extra che i tenutari delle locande ogni tanto si pregiavano di offrire ai loro clienti.
“Non mi serve niente, puoi tornartene da dove sei venuta.”
La ragazza non si mosse. Il sergente, spazientito, le ripeté l’ordine, accompagnandolo con un eloquente cenno del capo.
“Vattene!”
La ragazza, per tutta risposta, slacciò la veste multicolore che la copriva e la lasciò cadere al suolo. Fu il sergente, ora, a restare in silenzio.
La nera e delicata pelle della giovinetta era striata di rosso in più punti, lividi ecchimosi e tumefazioni erano diffusi in ogni zona del suo corpo. Drake capì il motivo del passo zoppicante della ragazza osservandone il grosso ematoma al ginocchio sinistro.
“Chi ti ha conciata così?” Il tono dell’uomo ora non era più irato. Era dolce, quasi paterno.
“Colui che stai cercando.”
Il sergente le fece cenno di rivestirsi, la fece accomodare alla sedia presso una piccola scrivania accanto alla finestra della camera e le versò dell’acqua. Attese che fosse la ragazza a parlare.
“Sei tu che stai facendo domande sul duitser dei boeri?”
Il sergente capì subito di essere sulla pista giusta. La spia, oltre che per la sua abilità nello sfuggire alle maglie dei suoi avversari, era famosa per il modo brutale con cui trattava le sue effimere conquiste.
“Sono io. Sai dove si trova?”
“Sta tornandosene a casa. Su un piroscafo per Marsiglia.”

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“Marsiglia?” La voce del capitano era incredula, ma qualche distante campanello cominciava a suonare nel fondo del suo sesto senso.
“Sì, capitano.” Il sergente fece ampi cenni affermativi col capo, e un ghigno di amarezza gli si stagliò sul volto. “È per quello che non siamo mai riusciti a seguirne le tracce fino alla tana. Abbiamo sempre cercato un tedesco…”
“Era una spia del Kaiser, su questo non ci sono dubbi.”
“Certo. Ma è anche un rinnegato.”
Il capitano guardò il sergente con una punta di sarcasmo negli occhi.
“Bah… nell’ultima guerra siamo stati alleati, ma allora… entrambe le nazioni appoggiavano i ribelli.”
Il sergente volse il volto verso l’uomo dalla mantella, inarcando il sopracciglio sinistro.
“Non intendo quello, capitano. Quando dico rinnegato, intendo rinnegato. L’ho sentito con le mie orecchie gioire per l’ascesa al potere di quell’imbianchino pazzoide e della sua cricca.”
“Mmh… un motivo in più per piantargli una palla in fronte.” L’uomo con la mantella continuò, poi, con un tono di autocommiserazione. “E questo… caro il mio Drake… mi fa riflettere sul fatto… che sono passati più di trent’anni da quando…” Si bloccò all’improvviso, fermandosi di colpo. Aveva capito. Aveva compreso. Guardò a lungo il volto del suo sergente, e si sentì colpevole. Il suo sottoposto, sempre leale, aveva passato più della metà della vita in onore e in ricordo di un bravo amico, di un fratello d’armi. Lui aveva impegnato lo stesso tempo, sacrificato gli stessi anni, ma non per un ideale, non per un nobile ricordo. Lui lo aveva fatto per la sua Stella. Le parole del fachiro gli risuonarono, chiare e accusatorie, nelle orecchie: ‘la tua pista non è pura’.
Cercò di scacciare l’ombra che gli si stava stagliando nella mente e nell’anima. Lo fece nell’unico modo che conosceva, nel modo utilizzato durante le stragi nei templi dei thug, durante le uccisioni a sangue freddo dei commando boeri, durante i rastrellamenti di donne e bambini nei villaggi isolati del Transvaal. Lo fece ritrovando l’automatismo spassionato della pianificazione militare.
“Sergente Drake. Abbiamo il vantaggio della sorpresa, ma non sappiamo quanti nemici dovremo prepararci ad affrontare una volta aperte le danze. E noi siamo in due.”
“No, capitano. Siamo in tre.”
L’uomo dalla mantella sollevò le sopracciglia in un moto di candido stupore. Il sergente continuò, ammiccando.
“C’è anche Murray.”
Il volto del capitano s’illuminò di un ampio sorriso. Murray. Se lo ricordava bene. Il più giovane elemento della sua squadra di irregolari. Appena sedicenne, al tempo. Era stata la loro lepre e la loro volpe. Agile, atletico, furbo. Il sergente riprese.
“Si è unito a me, e a questa allegra congrega, durante una tournée a Glasgow, pochi mesi fa. È stato più che felice di provare a darmi una mano. È il funambolo del circo. L’età non sembra averlo neanche sfiorato.” Il sergente accennò col capo lungo la via che stavano percorrendo. “Ci stiamo andando.”
Tornarono a muoversi. Vi fu un lungo silenzio, che fu infine interrotto dall’uomo con la mantella.
“Come hai fatto a trovarla, la dannata spia?”
Il sergente, lo sguardo fisso davanti a sé, stirò le labbra ed emise un tetro sibilo.
“Dannata è proprio la parola giusta, capitano.” Ristette alcuni secondi senza dir nulla. Poi rispose. “Ho seguito la scia di quelle povere ragazze.”


Cesare Bartoccioni, 2 maggio – 23 giugno 2017

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