Deanor - romanzo storico utopico allegorico (old page)


i primi tre capitoli

DEANOR
di Cesare Bartoccioni


L'ultimo sole del tramonto proiettava le ombre dei due cavalieri lunghe oltre il bordo del sentiero, tanto che sembrava giungessero fin alle pendici della Catena delle Aquile, la quale si stagliava cupa e tenebrosa in lontananza, minacciosa come ciò che si trovava al di là di essa.
Copertina, seconda edizione
Al passo, sul suo sauro andaluso, Ramiro sembrava assorto in contemplazione della propria ombra, con il capo leggermente volto a destra davanti a sé, verso le nere montagne della Catena. Il suo compagno ed amico d'infanzia, Raúl, spadaccino abile e fidato, sempre presente nei momenti importanti della vita di Ramiro, cavalcava il suo baio qualche metro indietro. Entrambi stanchi, provati dal lungo viaggio, entrambi in silenzio, entrambi preoccupati per la difficile missione che li attendeva. I lembi dei loro lunghi mantelli di lino grezzo cadevano esilmente sui fianchi delle loro montature.

Copertina, prima edizione
La coccia dorata delle loro sciabole, con un rubino incastonato sul davanti, in modo da essere immediatamente visibile ad eventuali avversari, rivelava il loro rango: Conti di Baronia. La vista stessa del rubino bastava da sola a scoraggiare i possibili sfidanti, stante la legge del Grande Feudo che puniva severamente chiunque ne aggredisse i nobili, indipendentemente dalle motivazioni. Quella legge, però, la prima approvata dal nuovo Stato dopo la scissione dall'Impero, si fermava sulla riva del fiume Vepia, la fine del Feudo, l'inizio della Zona Neutrale.
“Un soldo per i tuoi pensieri, Ramiro.”
Il volto sorridente di Raúl suscitò subito in Ramiro un moto di allegria. Ne aveva bisogno, date le difficoltà e i pericoli che avrebbero dovuto affrontare.
“Raúl, amico mio! Direi di fermarci qui per la notte; meglio entrare nella Zona Neutrale in pieno giorno, domani.”
“'Zona Neutrale'... bel nome le hanno dato. Terra di banditi, terra senza legge. Nessuno sa cosa succeda al suo interno. Pochi la attraversano vivi. Un capolavoro di alta politica!”
“Già. Fece parte del trattato di pace tra i sette baroni e l'imperatore: una zona cuscinetto che nessuno avrebbe dovuto mai rivendicare. Nessuna armata può entrarvi, nessuno può governarla. Le nostre pattuglie e quelle imperiali possono solo controllare i rispettivi confini, mentre dentro...”
Quarta di copertina
“Anarchia! Avremmo dovuto prenderci anche quella terra! Mio padre raccontava che l'armata imperiale era in rotta, che la nostra rivolta era stata inarrestabile, la nostra cavalleria invincibile. Tuo padre ti avrà raccontato la stessa cosa, no?”
“Sì, certo. Era capitano della cavalleria baronale, come tuo padre, ed erano sempre insieme.”
“Come noi”. Un'ombra di tristezza velò per un attimo lo sguardo di Raúl.
Ramiro smontò, ed iniziò a legare un laccio intorno alle zampe posteriori del suo cavallo. Raúl fece lo stesso con il suo.
“Lasciamo le pastoie lunghe, stanotte, qui è ancora sicuro, è inutile far soffrire i cavalli.” Ramiro era sempre attento alle sofferenze altrui, uomini o animali che fossero.
“Sì, sicuro, ma il Vepia non è molto lontano, io direi niente fuochi, che ne dici?”
“Hai ragione. Abbiamo ancora un po' di carne essiccata, la mandiamo giù con questo.” Ramiro mostrò a Raúl una fiasca che aveva staccato dalla sella.
“Ah, il buon rosso forte delle tue terre, eh?”.
“Già. Godiamocelo stasera. Da domani meglio restare assolutamente sobri”.
I due si slacciarono i corsetti di cuoio, spessi abbastanza da fermare frecce e dardi scagliati da lontano o con una ridotta potenza, e si sedettero sulle coperte stese per terra. I cavalli si mossero di qualche metro, un po' impacciati dalle pastoie, e iniziarono a brucare la dolce erba primaverile.
Il forte vino rilassò gli animi dei due cavalieri, mentre il crepuscolo avvolgeva di un soffice velo oscuro la pianura erbosa che declinava verso nord, verso il fiume.
Raúl se ne stava disteso, appoggiato su un gomito, mentre sorseggiava il buon rosso dalla coppa che teneva con la mano sinistra. “Mio padre diceva che fu la codardia dei sette baroni ad interrompere la nostra avanzata”.
Ramiro si era quasi assopito. Si tirò su girandosi verso Raúl. Sapeva che il padre di Raúl non aveva mai approvato il trattato di pace. “Non so... passare il Vepia allora sarebbe stato un rischio, le nostre linee si sarebbero allungate oltre il fiume, e la Catena delle Aquile è sempre stata difficile da attraversare. Così l'offerta di tregua e poi il trattato proposto dall'Imperatore furono prontamente accettati. Noi ottenemmo l'indipendenza...”
“Già... indipendenza feudale. Beviamo all'indipendenza!” Raúl finse un brindisi, e bevve il fondo della coppa. Poi si avvolse nella coperta.
Ramiro tornò a distendersi. Capiva la rabbia di Raúl. Suo padre si era opposto al trattato apertamente, minacciando di continuare la guerra con la cavalleria a lui fedele. I Baroni allora lo avevano accusato di sedizione, gli avevano tolto il comando, gli avevano confiscato le terre. Poco dopo il padre di Raúl morì, lasciando al figlio solo il titolo nobiliare. Raúl era stato quindi accolto dal padre di Ramiro, trattato come un figlio. I due ragazzi si somigliavano anche fisicamente, entrambi alti e mori, entrambi con occhi castano-verdi, Ramiro magro, con capelli mossi, volto allungato, Raúl con capelli lisci, volto rotondo, robusto ma non grasso; tante volte venivano presi per fratelli, e come tali vivevano. Quando anche il padre di Ramiro morì, Raúl aveva pianto. Era stata la prima e unica volta che Ramiro aveva visto Raúl piangere.
Gli occhi fissi al cielo, guardando l'alternarsi di stelle e nubi, Ramiro si chiese per l'ennesima volta che senso aveva ciò che stavano facendo. Combattere per sette Baroni che si erano divisi le terre strappate all'Impero. Terre che governavano esattamente come aveva fatto l'Imperatore, con la differenza che al posto degli ufficiali e amministratori imperiali avevano piazzato i loro familiari e amici fidati, creando un sistema di reciproche convenienze, favori, ricatti, che legava il Barone ai suoi Conti, i quali avevano in gestione le contee di ogni baronia. I sette Baroni, poi, si riunivano a intervalli regolari per diramare le questioni tra di loro. Nessuno dei sette doveva prevalere sugli altri, nessuno doveva diventare troppo potente, nessuno poteva andare contro le decisioni del Grande Consiglio Baronale. Ramiro tuttavia godeva di uno status particolare, essendo ancora viva la fama di suo padre, l'eroe che aveva sbaragliato l'esercito Imperiale nella Grande Rivolta, cacciandolo oltre il Vepia. Ramiro poteva gestire la sua contea senza troppe pressioni o ingerenze da parte del suo Barone, il Barone Licata, il quale anzi non aveva mai visitato le terre di Ramiro, mai fino a due settimane prima. Ramiro tornò con la mente a quell'incontro, cercando di recuperare quella strana sensazione che aveva provato durante il colloquio; sensazione che non riusciva a definire, non riusciva a capire, ma che sentiva come importante.
Il Barone si era fermato al limite della Contea, inviando un emissario per richiedere un incontro. La forma era già strana: di solito i Baroni inviavano emissari nelle contee per preannunciare il loro arrivo, in modo che potessero essere accolti con tutti gli onori. Ancora più strano fu per Ramiro, una volta giunto a cavallo al luogo stabilito, vedere il Barone accompagnato solo dal suo Scudiero e da una piccola scorta di cinque arcieri a cavallo, la ben addestrata guardia pretoria baronale.
Il Barone era in piedi di fronte al suo cavallo, e quasi ne oscurava la vista con la sua corporatura massiccia ed imponente. Non portava copricapo, e la sua testa glabra formava un perfetto ovale con il resto del volto ben rasato. Un lungo mantello color porpora, allacciato poco sopra il petto con una fibbia d'oro, scendeva lungo le spalle fino alle caviglie, aperto su un corsetto di cordobán finemente lavorato.
Ramiro era sceso da cavallo di fronte al Barone, e aveva iniziato ad inginocchiarsi per rendere omaggio, ma questi lo aveva fermato mettendogli le mani sulle spalle.
“Conte Ramiro, non occorre. Non sono qui in veste ufficiale, anzi. Mi scuso per la forma di questo incontro, ma ciò che sto per dire è della massima gravità, e necessita di assoluta segretezza”.
Il Barone aveva messo una mano sulla schiena di Ramiro, invitandolo a seguirlo poco distante, per poter parlare senza essere sentiti da nessuno.
“So di poter contare su di te, e sulla tua comprensione, oltre che sulla tua discrezione. Si tratta di mia figlia, Apollonia”.
Ramiro ricordava bene la figlia del Barone. Stupenda bellezza, alta, mora, grandi occhi scuri. Da far perdere il fiato a chiunque. Ramiro se ne era innamorato qualche tempo prima, ma aveva presto capito che era meglio non averci nulla a che fare.
“È successo qualcosa, Barone?”
“Mia figlia è stata rapita, Ramiro.”
“Cosa?” Ramiro era rimasto incredulo. Rapire un familiare di un Barone era una sicura condanna alla morte, tra mille strazi, del colpevole e alla rovina per tutti i suoi familiari. “Ma chi può aver osato tanto?”
Il Barone aveva volto gli occhi verso l'orizzonte, il viso triste, era rimasto in silenzio per qualche secondo, come a voler raccogliere i pensieri prima di proseguire.
“Sono stato sempre all'oscuro di tutto. Non ho mai saputo nulla fino a pochi giorni fa. Mia figlia aveva un amante segreto, con cui manteneva una fitta corrispondenza, aiutata nella segretezza dalla sua nutrice e da alcuni miei servi. Ma era tutta una trappola, un inganno ben ordito per rapirla e portarla...”
Ramiro era rimasto in silenzio, aspettando che il Barone proseguisse. Questi si era volto verso Ramiro, guardandolo fisso negli occhi. “Portarla... nella Zona Neutrale”.
Ramiro aveva avuto un tuffo al cuore. Nella Zona Neutrale? La figlia di un Barone?
“Non capisco, Barone, come hanno fatto? Come è stato possibile?”
“Questo amante, Conte, altri non è che il figlio del nostro più acerrimo nemico. Il figlio dell'Imperatore!”
A Ramiro era venuto meno il fiato.
“Ciò, mio Conte, sarebbe già grave. Immagina: la figlia di uno dei sette Baroni che si invaghisce del Principe imperiale... Basterebbe solo che si sapesse in giro, e la mia testa farebbe bella mostra di sé in cima al Palo della Legge nella piazza della nostra capitale. Ma è stata una trappola, organizzata dai banditi della Zona Neutrale.”
“Volete dire, Barone, che il Principe è in combutta con quei banditi?”
“No, Conte, no. Ma la corrispondenza tra mia figlia ed il Principe doveva per forza passare per la Zona Neutrale, e ho scoperto che uno dei miei servi era legato a quei farabutti, e li informava di tutto. L'ho fatto parlare sotto tortura e prima di passare all'altro mondo ha rivelato di aver falsificato una lettera del Principe, con cui si chiedeva a mia figlia di recarsi al confine per uno dei loro incontri. Ma al posto del Principe c'era una banda di quei dannati senza legge, i quali hanno trucidato tutto il seguito della mia Apollonia, l'hanno rapita e portata oltre il Vepia. Su uno dei corpi lasciati lì a marcire, infilzato con un pugnale, c'era questo.”
Il Barone aveva dato un pezzo di cuoio a Ramiro. Vergate d'un colore bruno, probabilmente il sangue stesso del servo sul cui corpo era stato rinvenuto il messaggio, le poche parole non lasciavano adito a dubbi: <<tre settimane – due forche – 1.000 pezzi>>.
“Ora, Conte, ho bisogno di un uomo di assoluta fiducia che si rechi all'incontro, portando il riscatto ai banditi, e che mi riporti Apollonia sana e salva. L'unica persona di cui mi fidi pienamente se tu, mio Conte. Tutti gli altri... insomma... sai come vanno le cose qui da noi.”
Ramiro aveva capito. Il sistema di legami e di reciproci favori creato dai Baroni funzionava fintanto che tutti potessero averne un mutuo guadagno, ma solo fintanto che il profitto non fosse eccessivo. Ora, una cosa come questa avrebbe dato a chiunque un enorme potere di ricatto sul Barone Licata, tanto che sarebbe bastato denunciarlo a qualcuno degli altri Baroni per avere in cambio titoli, terre, denaro, privilegi. A Ramiro interessava solo poter gestire in pace la terra che era stata di suo padre e del padre di suo padre, il suo carattere era estraneo a ricatti e tradimenti. Questo si sapeva, lo sapevano tutti, lo sapeva il Barone. “Inutile dire che te ne sarò eternamente riconoscente, Conte mio.”
Ramiro non poteva dir di no a richieste di aiuto, da qualsiasi parte provenissero. Anche questo lo sapevano tutti.
“Lo farò, Barone.” Ramiro aveva riconsegnato il pezzo di cuoio al Barone. “Il Principe è a conoscenza del rapimento?”
“Non abbiamo modo di saperlo, Conte. Ritengo di no, dato il poco tempo passato. Ma è necessario che la missione sia svolta rapidamente, che Apollonia torni qui da me, poi penserò io a sistemare le cose.”
“Ma gli altri manterranno il segreto?”
“Questa cosa la sappiamo solo io e te. I miei servi coinvolti sono già passati a miglior vita, e la nutrice di mia figlia è chiusa in un convento di clausura in montagna, con la lingua mozzata e la certezza di morte immediata qualora tenti di comunicare con chicchessia. Le è andata ancora bene dato che è analfabeta, altrimenti l'avrei fatta anche accecare e le avrei fatto tagliare le mani!”
Ramiro aveva visto che il Barone stava trattenendo a stento la rabbia. Le punizioni di Baronia erano terribili, ed arrivavano all'improvviso.
La strana sensazione tornò allora a farsi sentire, al ricordo della rabbia repressa dal Barone. In quel momento, senza sapere perché, Ramiro aveva sentito qualcosa che non quadrava, qualcosa di strano. Non poteva essere una semplice reazione alla brutalità del suo Signore, Ramiro non era il tipo da farsi intimorire. Ma aveva sentito come un campanello d'allarme, un ammonimento che in tutta quella faccenda c'era qualche anomalia. Anomalia che non riusciva tuttavia ad inquadrare, anomalia il cui senso gli sfuggiva.
Il Barone si era allora slacciato un cilindro di cuoio dalla cintola, e lo aveva dato a Ramiro. “Qui ci sono i mille pezzi chiesti dai banditi. E questo...” il Barone aveva porto a Ramiro il suo Bastone Baronale “... questo è il tuo lasciapassare.”
Ramiro aveva preso il cilindro con la sinistra, e il bastone con la destra. Per un istante aveva riflettuto sul fatto di avere in mano un immenso potere ed una immensa ricchezza. Le due fondamenta del Gran Feudo. Il Barone evidentemente non solo era sicuro che Ramiro avrebbe accettato la missione, ma riponeva in Ramiro una fiducia enorme. Ramiro si era sentito per un momento esaltato da tanta stima, anche se in fondo sapeva che essa derivava proprio dal fatto che egli aveva sempre rifuggito ciò che suo padre chiamava 'le due serpi dell'anima'.
Le monete contenute nel cilindro raramente si vedevano in giro. Ognuna era un disco di oro in una lega quasi pura, ogni disco poteva essere diviso fisicamente in venti parti, con ciascuna parte o pezzo avente valore legale. Un alto magistrato del Gran Feudo, ad esempio, una delle cariche pubbliche meglio retribuite, aveva un appannaggio di cento scudi annui. Per un pezzo d'oro ci volevano mille scudi. La gran parte dei sudditi del Feudo non riusciva neanche a vederne uno, di scudi, in tutta la vita; le normali transazioni tra il popolo si facevano in soldi, e uno scudo ne valeva mille, di soldi. Con le cinquanta monete contenute nel cilindro si potevano comprare dieci contee, intere città... un riscatto da Re... Ramiro non avrebbe mai pensato prima di allora che perfino un Barone potesse disporre di tale somma.
Il Bastone Baronale che Ramiro teneva nella mano destra era la chiave che apriva tutte le porte del Gran Feudo. Un corto bastone di rovere, lungo trenta centimetri, sette centimetri di diametro. La testa del bastone era inglobata in un grosso smeraldo, la pietra simbolo del potere baronale. Il piede della verga era il sigillo d'oro del Barone Licata: rami d'olivo intrecciati a triangolo con al centro un ordito di rose spinose che riproducevano la 'L' della baronia. Intorno al bastone, per tutta la lunghezza, due spirali, una dorata, con la massima del Gran Feudo, che a Ramiro era sempre suonata ipocrita: 'Nemo regere potest, nisi qui et regi', e l'altra argentata, con il motto della Baronia di Licata: 'In hoc signo vinces'. Ogni Barone aveva il suo sigillo, di forma e disegno differenti a seconda del messaggio che si voleva trasmettere; ma ogni sigillo riportava la lettera della baronia del signore feudale. I rami di olivo di Licata indicavano la pace che il Barone voleva garantire nel suo dominio; la rosa e le spine erano un simbolo chiaro ed inquietante: generosità con chi obbediva, castigo totale per chi si ribellava. Tale sigillo era riportato anche sullo stendardo, sulle targhe dei palazzi baronali, su suppellettili, arazzi, quadri, oggetti di valore, ed infine sull'anello baronale, anch'esso d'oro, infilato sull'anulare destro del Barone. Da tale anello il Barone non era mai separato, vi era perfino sepolto, poiché il successore avrebbe deciso del proprio sigillo aspetto e foggia. Il successore, in base alla legge del Gran Feudo, sarebbe stato scelto dal Barone stesso. Tale evento non si era ancora mai verificato; i sette Baroni erano gli stessi della Grande Rivolta, erano quelli che da sudditi dell'Imperatore, da amministratori imperiali delle terre cisvepiadiche, avevano pensato, tramato, organizzato, portato a compimento l'insurrezione, sfruttando abilmente, di comandanti e notabili, la brama di potere e di ricchezze di alcuni e la sincera dedizione alla causa indipendentista di altri, di altri come il Duca Juan Marcos, il padre di Ramiro.
Come dimostrazione del loro immenso potere, i Baroni non giravano armati, non ne avevano bisogno. Disponevano a piacimento di tutto e tutti nella loro baronia. Toccare un Barone o uno dei suoi familiari o protetti era impensabile per chiunque. Avevano solo il Bastone alla cintola, dove normalmente restava agganciato, tranne in casi eccezionali, quando veniva consegnato a uomini di estrema fiducia che dovevano compiere le più difficili missioni in nome e per conto del Barone. Come in questo caso. Il possesso del Bastone Baronale apriva tutte le porte, annullava tutte le leggi, dava carta bianca al suo possessore, il quale per tutto il tempo in cui ne aveva la detenzione assumeva il titolo di Apostolo Baronale, carica che lo poneva al di sopra di tutto e tutti, tranne del Barone stesso.
Il cielo si era schiarito, e le costellazioni erano ora ben visibili sulla volta scura. Ramiro non dormiva ancora. Tanti pensieri turbinavano nella sua mente. Ramiro Francisco Burton De la Flor, Capitano di cavalleria, Conte ed ora perfino Apostolo di Baronia... Questo uso di termini religiosi era tipico dei Baroni. Come se volessero coprirsi di un'aura di purezza e grazia. Avrebbe dovuto essere grato al Barone per tale fiducia, per tale incarico, per tale privilegio. Ma sapeva che dai Baroni nulla veniva in modo gratuito, tutto si pagava, tutto aveva un prezzo, e tanto maggiore era il prezzo quanto più grande il privilegio. Ma ora basta pensare, basta rimuginare e rimescolare. Doveva dormire, doveva essere in forma per l'indomani, per l'appuntamento alle due forche, oltre il Vepia.
Ramiro si addormentò, si addormentò con quella strana sensazione che tornava a farsi sentire. Un allarme. Un avvertimento. Il Barone... mille pezzi... rapita... Conte... nobile declassato... il Bastone Baronale... rubino e smeraldo... nel vortice che precede il sonno un lupo ululò in lontananza. Un allarme. Un avvertimento. Ramiro dormiva già.


IL VEPIA

Ramiro aprì gli occhi; su in alto, sullo sfondo del cielo chiaro, il volto beffardo di Raúl illuminato dalla luce del mattino gli sorrideva divertito.
“Se fossi un bandito ora saresti già all'altro mondo, amico mio.”
Ramiro si tirò su mettendosi seduto. Sorrise di rimando a Raúl.
“So che con te vicino non mi può succedere nulla di male.”
“Già, sono sempre stato il tuo angelo custode. Ho già preparato i cavalli. Meglio muoverci.”
Ramiro si alzò. Si passò sul volto e sul torso una pezza bagnata con l'acqua della sua fiasca. Dalla stessa fiasca bevve qualche sorso, con cui accompagnò un pezzo di pane duro e un boccone di carne secca.
In silenzio, armò le due piccole balestre che teneva agganciate alla sella, ed inserì la sicura. Questa era stata una invenzione di Raúl: un piccolo gancio che manteneva immobile la chiave di scatto dell'arma sulla sua parte posteriore. Era sicuro e rapido da disinserire al bisogno. Le balestre che portavano potevano essere usate con una mano sola, e il gancio poteva essere disinnestato con il mignolo della mano, mentre con le altre dita si premeva la leva facendo partire il dardo. Nei tornei di Baronia Ramiro e Raúl erano famosi per la loro abilità nell'usare contemporaneamente le due balestre, con i cavalli al galoppo, centrando i bersagli. La sicura messa a punto da Raúl permetteva di portare le balestre agganciate sui due lati della sella, armate e pronte all'uso. La balestra era stata una concessione strappata dai Conti del nuovo Feudo ai Baroni, quando questi, dopo la vittoria sull'Impero, avevano proibito il porto delle armi da lancio, riservandolo solo alle loro guardie del corpo. Ora ogni Conte poteva detenere due balestre, con un massimo di dodici dardi. Ramiro e Raúl, però, in questa missione, di dardi ne avevano portati molti di più.
Ramiro quindi estrasse la sciabola dal fodero, e passò sul filo la pietra affilante. Prima di rinfoderarla soffermò lo sguardo sulla costola dell'arma, sopra la scanalatura, sulla scritta incisavi da suo padre quando gliel'aveva regalata, tanti anni prima: “no me saques sin razón, no me envaines sin honor”. Ramiro era stato sempre fedele a tale monito. Agganciò anche la sciabola alla sella, si strinse al torso il corsetto di cuoio, quindi montò a cavallo.
Al passo, i due compagni si diressero verso il guado del Vepia.
In tarda mattinata, giunti in vista del posto di guardia a presidio del guado, Ramiro volse il cavallo verso est, e lo spronò al trotto. Raúl gli fu subito al fianco.
“Dove stai andando, Ramiro?”
“Voglio controllare una cosa.”
I due seguirono al trotto oltre una piccola altura, scendendo poi in un avvallamento fino ad arrivare ad un folto bosco. Oltrepassate le prime file di alberi, entrarono in una piccola radura, con un minuscolo stagno al centro.
Ramiro percorse al passo tutta la radura, lo sguardo fisso al suolo.
Raúl era fermo al limitare dello spiazzo.
“Che c'è, amico mio? Stai cercando qualche gnomo?”
“Non noti niente di strano, Raúl?”
“No... è una radura come tante, non mi sembra ci sia nulla di particolare.”
“Esatto. Un bel prato d'erba folta, belle piantine che spuntano da ogni parte, sembra che nessuno sia stato qui da anni, no?”
“Eh, sì. Ma non conoscevo questa tua anima bucolica, Ramiro.”
Ramiro alzò lo sguardo verso Raúl.
“Questo è il posto indicatomi dal Barone come luogo del rapimento di Apollonia. Stranamente, non vi sono tracce di lotta, né orme di cavalli, né quelle della carrozza. Niente.”
“Beh, forse la scorta di Apollonia è stata colta alla sprovvista.”
“La scorta della figlia di un Barone? Scherzi? Anche se fosse stato così, avrebbero lottato fino all'ultimo sangue, perché la peggiore delle morti li avrebbe aspettati se fosse successo qualcosa alla loro protetta. Qui ci dovrebbero essere orme, impronte, rami spezzati, sassi divelti dalla riva dello stagno, tracce di sangue dei corpi lasciati qui a marcire... invece niente. Niente di niente.”
“Può essere il posto sbagliato. Magari il Barone non conosce bene questa zona.”
“No, 'il boschetto a est del posto di guardia sul Vepia', sono state le sue esatte parole. Questo è l'unico boschetto nel raggio di venti miglia.”
“Mmmh... che ne pensi, quindi?”
“Non so che pensare, Raúl. Proprio non lo so. Andiamo al posto di guardia, voglio parlare con il comandante prima di passare il fiume.”
Il presidio sul Vepia era una fortezza costituita da due torri di granito rosa poste sui due lati della strada, che dalle torri pendeva decisamente per circa cinquanta metri fino alla riva del fiume. Le due torri erano collegate da un arco a sesto ribassato, sopra il quale era stato ricavato un camminatoio, e sotto il quale una pesante grata di ferro, con un largo cancello al centro, bloccava il passo. La torre a ovest era alta dieci metri, un tronco di cono con un diametro alla sua base di venti metri; l'assenza di feritoie indicava che era plausibilmente usata come magazzino. Quella a est era molto più grande, con una base ottagonale enorme, ogni lato di circa cinquanta metri, l'altezza era almeno di venti metri, e la piattaforma circolare superiore aveva un diametro di sessanta metri. Grosse baliste spuntavano dai merletti della torre orientale, mentre balestrieri ed arcieri si vedevano sulle cime delle due torri, vigili e minacciosi, al di sopra delle caditoie da cui far piombare su eventuali attaccanti liquidi ustionanti o frecce. I balestrieri del posto di guardia erano dotati di balestroni e di balestre a molinello, potenti armi che richiedevano vari uomini per essere usate, ed il cui raggio di azione avrebbe scoraggiato chiunque avesse pensato di affacciarsi sul guado senza permesso.
Le due torri difendevano l'unico punto guadabile di tutto il Vepia, e la guarnigione era sempre composta da almeno un centinaio di uomini.
Avvicinandosi al presidio Ramiro osservò il recinto dei cavalli, dove splendidi esemplari si abbeveravano. Cavalli andalusi scelti tra i più veloci, destinati a portare rapidamente i messaggeri in caso di attacco.
Sull'alto della torre orientale sventolava il vessillo verde e rosso del Gran Feudo, il verde smeraldo dei Baroni ed il rosso rubino dei Conti, bandiera a due bande orizzontali di eguali dimensioni, ma con il verde in alto ed il rosso in basso. Sotto il vessillo garriva lo stendardo del Barone Cale, un ferro di cavallo riproducente la 'C' attorniato da un ramo di quercia a destra ed uno di alloro a sinistra. Il Barone Cale, oltre che per il suo mecenatismo ed i suoi grandi allevamenti di cavalli, era famoso per i suoi forti soldati, ben addestrati e altrettanto ben armati. Era l'unico dei sette ad aver allentato le dure leggi baronali contro il porto delle armi, evidentemente l'unico che riponesse abbastanza fiducia nei suoi uomini. Ed era a lui, infatti, che era stata demandata la difesa dei confini del Gran Feudo.
Sulla riva sud del Vepia, oltre le torri, Ramiro vide una lunga fila di alti pali, con stoppie resinose sulle cime. Erano torce, e Ramiro immaginò che venissero accese di notte, per illuminare tutto il tratto guadabile del fiume.
A una decina di metri dalla cancellata, i due cavalieri furono circondati in un attimo da cinque alabardieri. Immediatamente arrestarono le cavalcature. Un alabardiere ben addestrato non dava speranze a nessun cavaliere. Il capo manipolo si fece avanti spavaldo.
“Chi siete e cosa fate qui.”
Non era una domanda, era un'ingiunzione. Ramiro fu tentato di mostrare il bastone baronale per far ingoiare al soldato la sua sfrontatezza, ma d'altro canto questi faceva solo il suo mestiere. Tuttavia Ramiro conosceva il comandante del presidio, e preferì presentarsi senza rivelare il suo nuovo ruolo.
“Sono il Conte Ramiro. Abbiate la cortesia di avvisare il mio buon amico, il Conte De Pecchi, che sono qui.”
Il soldato voltò le spalle ed in silenzio si diresse verso la grata. Un arciere aprì un piccolo cancello ricavato nella grata stessa. Il soldato entrò.
Ramiro e Raúl si guardarono l'un l'altro, le alabarde delle guardie puntate contro i loro cavalli, gli sguardi dei soldati duri ed inespressivi puntati contro. Era proprio vero che i soldati del Barone Cale non scherzavano.
“Conte Ramiro! E il grande Raúl con lui! A che devo tanto onore?”
La voce allegra da tenore di De Pecchi giunse squillante ai due compagni. Gli alabardieri sollevarono le armi e si disposero in fila, sull'attenti. Osvaldo De Pecchi, in una impeccabile tenuta rosso fiamma, fece segno a due attendenti di occuparsi dei cavalli, ed abbracciò Ramiro prima e poi Raúl appena questi scesero.
“Seguitemi, amici miei, farò servire un bel pranzo.”
Ramiro e De Pecchi erano amici di vecchia data. De Pecchi era sui trentacinque, una decina di anni più di Ramiro, ed aveva partecipato alla guerra contro l'Impero, sotto il mando del Duca Juan Marcos. Allora era il Marchese De Pecchi, fiduciario del Duca, tutore delle contee che si affacciavano sul Vepia. Ora pure lui era stato declassato, come tutti. I Baroni, infimi dignitari dell'Imperatore, una volta raggiunto il potere con la secessione, avevano abrogato i precedenti titoli nobiliari e tutti i loro simboli, decretando che i vari blasonati acquisissero la denominazione di Conte, e che nel Gran Feudo il titolo di Barone fosse quello superiore. Il rubino istituito come emblema nobiliare, più che a placare gli animi, era servito a qualche Conte per inventare allegre storielle che circolavano di nascosto nel Feudo.
De Pecchi accompagnò i due oltre il cancello, e li condusse attraverso un portale di marmo bianco dentro la torre orientale. Qui Ramiro e Raúl si fermarono di colpo, sorpresi da ciò che avevano dinanzi. All'interno della torre si apriva un verde cortile ottagonale, con un pozzo di granito rosa al centro, dal quale otto vialetti di porfido dipartivano verso gli angoli dell'ottagono. Un ampio viale, sempre di porfido, collegato ai vialetti, correva lungo tutti i lati del cortile. I triangoli tra un vialetto e l'altro erano rigogliosi di erba fresca e ben tenuta. Sollevato lo sguardo, Ramiro vide che la parte superiore della torre era disgiunta dalle mura, sostenuta da un sistema di semiarchi a sesto ribassato, che dagli angoli più alti delle pareti convergevano al centro della piattaforma stessa. La parte inferiore della piattaforma era rivestita di marmo bianco levigato, e la luce che filtrava dagli spazi tra un semiarco e l'altro si rifletteva fin nel cortile, illuminando tutto l'interno della torre, anch'esso rivestito della stessa pietra.
De Pecchi ridacchiò.
“Eh, tutti rimangono di stucco, qui dentro. Notevole no? Opera del mio bravo architetto buonanima, Giorgio Martini, eccellente ingegnere militare, ma poco diplomatico. Quando si azzardò a criticare le decorazioni eccessive del cornicione del palazzo del Barone Bayera, vi fu da questi appeso per i piedi, finché morte non sovvenne. Beh, faremo un bel brindisi alla sua memoria. Venite.”
I tre entrarono per un portone di quercia posto sul lato interno sud della torre. Uno stretto corridoio li condusse ad un ingresso sulla destra, entro il quale vi era una confortevole sala, tappezzata con pelli e arazzi; delle panche di abete erano poste a ferro di cavallo intorno ad un caminetto, di fronte al quale era sistemato un basso tavolo di pino. Su quelle panche i tre presero posto, e De Pecchi versò in tre coppe un fresco vino bianco.
Arricciandosi i biondi e ben tenuti baffi e pizzo, De Pecchi sollevò la coppa.
“Bene, amici miei, alla vostra, alla nostra, e alla memoria del mio buon Martini.”
I tre bevvero il dolce bianco, e si sistemarono sulle morbide pelli di camoscio che ricoprivano le panche. Due servi entrarono, uno posò sul tavolo un grande vassoio di betulla pieno di selvaggina in una salsa di burro salato, l'altro vi sistemò un tagliere coperto da un panno. De Pecchi sollevò il panno, strizzando l'occhio a Ramiro. Impilate sul tagliere, tonde focacce di farro emanavano un caldo invitante profumo. L'esile grifone dei Marchesi De Pecchi, in rilievo sulla focaccia, faceva bella mostra di sé.
Ramiro sorrise di rimando a De Pecchi. Evidentemente questi non si era liberato di tutti i simboli del Marchesato, come era stato stabilito dai Baroni, ma aveva mantenuto almeno le piastre di metallo che servivano a cuocere le focacce. Divertito da tale goliardia, e stimolato dal buon odore delle pietanze, Ramiro afferrò una focaccia, l'arrotolò intorno a sugosi pezzi di selvaggina, e la gustò ad occhi chiusi, imitato da Raúl.
“Ah, che delizia.” Disse Raúl. “Sono quattro giorni che andiamo avanti a carne secca...”
De Pecchi osservò divertito gli amici che divoravano il cibo, e si unì a loro.
“Organizziamo spesso battute di caccia, un modo per i miei arcieri di tenersi in forma. Questo è un piatto speciale del mio cuoco, che passa tutta la giornata nelle cucine della torre occidentale: fagiano, lepre, interiora di camoscio e petto della nobile beccaccia per ottenere l'aulico sapore, ma questo non devo dirlo a te, Ramiro.”
“Già.” Ramiro tornò brevemente con la mente a suo padre. Il Duca Juan Marcos era stato il maestro assoluto della caccia alla beccaccia, tutti i migliori cacciatori dell'Impero prima e del Gran Feudo poi avevano avuto qualcosa da imparare da lui. Venivano perfino dalle lontane terre del nord per cercare di carpire qualche segreto del grande cacciatore. Suo padre, comunque, l'avrebbe arrostita allo spiedo, la beccaccia, ma questo Ramiro non lo disse a De Pecchi.
“Mmh... squisito”. Raúl continuava ad abbuffarsi a piene mani.
Gli stessi due servi di prima rientrarono di lì a poco con un vassoio pieno di carote e cavolo spezzettati e conditi con olio e aceto, una fiasca di vino rosso ed un grosso boccale di acqua fresca. Tornarono a dileguarsi oltre la porta, per riapparire in breve tempo con un largo piatto dove erano state sistemate diverse arance tagliate a quarti.
“E queste dove le hai trovate?”
“Sono le ultime della stagione, Ramiro, amico mio. Una varietà tardiva di queste terre, un po' meno amare delle altre, assaggiale.”
Ramiro prese un quarto di arancia, se la portò alla bocca e ne masticò la polpa succhiandone il succo. Il sapore agrodolce era rinfrescante.
I tre, finita la selvaggina, passarono alle verdure, per poi dedicarsi agli spicchi d'arancia.
I due servi ricomparvero con un grosso recipiente ed un'altra fiasca, li posarono sul tavolo, e se ne andarono portando via i piatti vuoti.
“Sono veloci, i tuoi servi, amico mio.” Disse Ramiro versandosi un liquido ambrato dalla nuova fiasca. “Dalle cucine dell'altra torre, su per le scalinate, attraverso il camminatoio, e poi giù fin da noi, in un attimo.” Ramiro stava guardando De Pecchi di sbieco, bevendo il liquore. De Pecchi sorrise.
“Eh, tu sei più sveglio di quanto non voglia far credere... il mio buon Martini era un appassionato di passaggi segreti. Ce n'è uno sotterraneo che collega le due torri, dalla cucina sbuca nella stanza qui accanto.”
Raúl si allungò verso il tavolo e scoprì il recipiente: un forte odore dolce invase la stanza.
“Dulcis in fundo, amici miei! Vogliate gradire il porridge di avena con mele cotte e miele del mio grande chef. Ci beviamo dietro il vino che tu hai già assaggiato, mio sagace Ramiro, invenzione di un devoto frate, il quale lo usava per curare gli appestati, tanto che venne chiamato santo, il vino.”
Finito anche il porridge, i tre si adagiarono soddisfatti sulle panche. De Pecchi riempì di nuovo le coppe con il vino santo.
“Bene, miei cari. Eccoci qua. Allora, a che devo la vostra graditissima visita?”
Ramiro e Raúl si guardarono. Ramiro si volse verso De Pecchi.
“Dobbiamo passare il fiume. Abbiamo una cosa da fare al di là.”
“Al di là... forse intendi all'Aldilà! C'è la Zona Neutrale, di là.” De Pecchi indicò con il pollice dietro le sue spalle. “Non posso far passare nessuno, amici. Neanche voi. Lo sapete, no?”
Ramiro portò la mano destra alla cintola, poi la allungò verso De Pecchi. Questi vide il bastone baronale che Ramiro impugnava, lo prese e lo tenne tra le mani, esaminandolo. I suoi occhi azzurri si rabbuiarono.
“Ah, questa, poi...”. Restituì il bastone a Ramiro.
“Non avrei voluto mostrartelo, Osvaldo. Sai che non sono il tipo. Ma mi evita di rivelarti cose che potrebbero mettere a rischio la tua vita.”
“Addirittura! Apostolo Baronale. Sei l'ultima persona che avrei immaginato con tale incarico.” De Pecchi aveva uno sguardo amareggiato, era evidente che non aveva molta simpatia per i Baroni ed i loro protetti.
“Non è come pensi. Non sono qui come longa manus del mio Barone. Devo compiere una missione, oltre il fiume, salvare una persona. E ti ho già detto troppo.”
“I Baroni salvano solo i loro familiari o le persone da cui possono trarre un guadagno. Ma basta così, non voglio farti domande. Dimmi cosa ti serve e farò tutto ciò che è in mio potere.”
“Vorrei farti qualche domanda, amico mio.”
De Pecchi socchiuse gli occhi, vagamente insospettito. Tuttavia si trattava di Ramiro, la loro era una salda amicizia.
“Sono a tua disposizione.”
“Parlami un po' di questo posto di guardia.”
Raúl si tirò su sulla panca, si protese in avanti appoggiando i gomiti sulle ginocchia, attento.
“Non c'è molto da dire. Il presidio era già mio al tempo dell'Impero, anche se allora era usato come tappa per le truppe ed i rifornimenti che arrivavano da nord. Come avrai già notato, la torre occidentale è usata come cucina e magazzino, ma è ben difesa dall'alto, nonché dal basso attraverso il cunicolo; vi sono provviste per due mesi, anche tre tirando la cinghia, e sono mantenute al livello massimo da periodiche carovane di vettovaglie che arrivano dalle mie terre. La torre dove ci troviamo è la difesa principale, qui c'è un fabbro, un falegname, un sarto... insomma, tutto quello che ci serve. Saprai già che la guarnigione conta oltre cento uomini, quindi in teoria potremmo resistere a un assalto portato da cinquecento attaccanti, ma dato il livello di addestramento dei miei soldati, ti assicuro che per passare di qui ci vogliono almeno duemila uomini armati di tutto punto e ben motivati.”
“Sempre che i tuoi siano ben pagati.” Raúl aveva uno sguardo tra il beffardo e il divertito.
De Pecchi sospirò: “Ancora quella vecchia storia... ti assicuro che sono... veramente pagati; sono anche ben scelti, la guerra non è solo il loro mestiere, è la loro passione, è il sogno della vita, le ardue imprese, la fratellanza, la scoperta di ciò che si è realmente dentro nei momenti della prova suprema, la...”
Ramiro interruppe De Pecchi. Sapeva ciò a cui si riferiva Raúl: il Barone Cale, tempo addietro, aveva passato un guaio per aver coniato moneta falsa, dovendo saldare ingenti debiti per il mantenimento dei suoi sconfinati allevamenti di cavalli. Ogni Barone possedeva una zecca, e poteva battere moneta, ma ogni anno il Grande Consiglio Baronale decideva quanta moneta emettere e quanta ne potesse emettere ogni Barone. Produrre e diffondere moneta falsa era un grave reato, punibile col taglio delle mani, oltre all'obbligo di rifondere la zecca con tanto denaro vero quanto fosse stato quello falso messo in circolazione. Il Barone Cale, tuttavia, essendo oltre che Barone anche un grande possidente, se l'era cavata cedendo agli altri sei, in parti uguali, terre e tenute aventi il doppio del valore rispetto alla moneta che aveva falsificato.
Ramiro aveva interrotto De Pecchi anche perché questi si era lanciato nell'apologia della lotta, del combattimento, delle eroiche azioni. De Pecchi era un uomo di altri tempi, pieno di spirito cavalleresco, di esaltazione dell'eroismo, dell'ideale del nobile sacrificio e delle eccelse gesta. Ramiro sapeva che una volta iniziato, il monologo di De Pecchi avrebbe potuto continuare per ore, e non aveva il tempo per ascoltarlo.
“Pattuglie?”
De Pecchi volse lo sguardo a Ramiro, come sorpreso di vederselo vicino. Si scosse dal suo mondo e rispose.
“Di continuo. Percorrono tutto il confine, ricorrendo i vari posti di osservazione allocati a distanza di una giornata di cavallo. Sono pattuglie di esplorazione, leggere e veloci, dato che non è possibile attraversare il fiume se non da qui.”
“Sicuro di questo? Non vi sono altri guadi, o punti transitabili in qualche modo, magari con imbarcazioni?”
“Dopo il trattato di pace...” De Pecchi sollevò i baffi in un ghigno, “... o dovrei dire 'tregua'... con l'Impero, la sponda sud del Vepia, il nuovo confine, fu battuto palmo a palmo. La parte navigabile va da dove siamo noi fino al delta, ma i possibili approdi sono solo sulla riva nord, quella a sud è praticamente un promontorio roccioso senza soluzione di continuità, tant'è che le nostre scogliere di granito rosa contendono la fama a quelle bianche di Grainwall. A monte del nostro presidio, invece, paludi, sabbie mobili, rapide, cascate, e la sempre elevata velocità delle acque dovuta alla forte pendenza rendono di fatto impossibile il guado e l'uso delle rive, difficile anche per pochi uomini che viaggino leggeri, infattibile per truppe equipaggiate.”
Ramiro stette un attimo pensoso. Sorseggiò il vino santo, quindi si volse di nuovo a De Pecchi.
“Hai notato qualche movimento, nella zona, nelle ultime settimane, in specie a est, oltre l'altura, verso il boschetto?”
“No, niente. A parte i rifornimenti giuntimi dieci giorni fa, e alle bande delle cosiddette guardie pretorie baronali che capitano ogni tanto a ficcare il naso e con le quali non voglio aver nulla a che fare, dato che per me sono solo assassini e criminali rivestiti di falsa dignità dai nostri bravi Baroni, e questo te lo dico, Apostolo o meno.”
Ramiro la pensava allo stesso modo di De Pecchi, sui pretoriani. Ma ora gli interessava restare in tema, senza iniziare altre discussioni.
“Sicuro? Non avete visto nessuno? Verso il boschetto?”
“Certo, sicuro. Il boschetto a cui ti riferisci è l'unica riserva di legna e di selvaggina in queste lande brulle e desolate. I miei uomini vi si recano quasi ogni giorno, mi avrebbero informato.”
Ramiro guardò Raúl. Questi sollevò le spalle e si adagiò sulla panca.
Dopo lunghi attimi di silenzio, Ramiro si alzò.
“Beh, meglio muoversi.”
I tre tornarono nel cortile interno. Tagliarono dritti il cortile oltre il pozzo ed uscirono dalla torre dal lato nord, superando un portale ad arco a sesto acuto.
De Pecchi indicò la chiave di volta. Lì lo stemma del marchesato era stato cancellato; il ferro di cavallo del Barone Cale era stato riportato con chiara evidenza sulla superficie che presentava palesi tracce di scalpello. Ramiro non seppe risolvere se tale lavoro grossolano fosse stata la volontà del Barone in spregio agli antichi blasoni o piuttosto quella di De Pecchi in modo da lasciare traccia dell'affronto, che un giorno sarebbe stato vendicato. Conoscendo De Pecchi, Ramiro propese per quest'ultima ipotesi.
“Questo è l'unico arco gotico voluto dal mio Martini, un simbolo delle incognite e dei misteri oltre il fiume. Il cuore dell'Impero è sempre stato impenetrabile, anche quando ne facevamo parte... le notizie sempre scarse, i viaggiatori sempre di poche parole.”
Ramiro guardò De Pecchi. La tunica rossa, i baffi ed il pizzo senza un pelo fuori posto, lo sguardo chiaro, alto e fiero. Questo era il suo mondo, una fortezza, sola, di fronte all'incognito, unica ed ultima difesa di ciò che visibilmente egli ancora considerava il suo marchesato. De Pecchi preferiva vivere lì, invece che nel suo comodo e sontuoso palazzo.
Oltre la torre, nel terreno antistante, sulla destra, un piccolo recinto di tronchi di abete era costruito con un cancello a sud, ed una grande apertura, sbarrata da un palo scorrevole, a nord. Dentro il recinto, sublime e magnifico, il frisone di De Pecchi, bardato con corazzature a scaglie, la sella portoghese in cuoio rosso borchiato in oro, la gualdrappa scarlatta bordata in filigrana aurea, mostrava naturalmente la sua potenza ed eleganza. Il famoso cavallo da guerra di Osvaldo De Pecchi ergeva la testa a quasi due metri e mezzo di altezza, nero e lucente, sembrava un animale mitico degli antichi poemi classici.
Ramiro osservò come De Pecchi guardava il cavallo, e capì che tra i due vi era una sorta di connessione. De Pecchi teneva il suo cavallo dalla parte del fiume, verso il nemico, pronto ad essere montato, pronto per l'attacco. In un angolo del recinto, sotto una tettoia guardata da due fieri alabardieri, l'armatura dorata, la spada a due mani, la lancia da torneo di De Pecchi brillavano al sole del primo pomeriggio. Ramiro riconobbe la spada: era la Claymore che suo padre aveva regalato a De Pecchi.
Il cavallo attirava subito l'attenzione di chi si affacciasse dal lato nord della torre, ma, volto lo sguardo al guado, un'altra sorpresa aspettava i due; sulla sponda del fiume, a una ventina di passi a valle, era attraccata una piccola nave, lunga circa quindici metri e larga non più di quattro, con un ordine di remi ed un albero centrale alto circa tre metri, a cui era agganciato un palo ad esso perpendicolare posto a circa mezzo metro di altezza dal ponte; attorno a tale palo era arrotolata una vela, evidentemente triangolare. La nave sembrava capiente abbastanza per contenere una cinquantina di armati equipaggiati. A prua ed a poppa si ergevano due impalcature che formavano due piccole torri; le feritoie presenti indicavano che erano usate come piattaforme di lancio per arcieri e balestrieri. Ramiro sgranò gli occhi, poi si rivolse a De Pecchi.
“Non sapevo che il fondale fosse già così profondo a pochi passi dal guado.”
De Pecchi sorrise. “Non lo è. Ho fatto costruire apposta quella nave per la navigazione sul fiume; ha la chiglia appiattita. In una giornata, con quel legno, con la vela spiegata e i venti rematori in forma, si raggiunge il delta e si torna al presidio.”
Due stallieri portarono a Ramiro e Raúl i loro cavalli, nutriti e strigliati. Controllate le cinghie delle loro selle argentate, questi montarono e si disposero a partire. De Pecchi guardò con disapprovazione le balestre armate agganciate alle selle.
“Non avete bisogno di nulla, miei prodi?”. Il tono era sarcastico.
Ramiro sorrise. De Pecchi non sarebbe mai sceso in combattimento con armi da lancio; per lui sarebbe stato disonorevole colpire il nemico a distanza. De Pecchi era uomo di altri tempi.
“Nulla, amico mio. Contiamo di tornare sul far della notte.”
“Eh, hai fatto bene a dirmelo, Ramiro. Di notte i miei sono addestrati a tirare prima e chiedere spiegazioni poi. Darò istruzioni in proposito. Non volete proprio nulla, cibo, acqua?”
Raúl fece un cenno di diniego con la mano. “Troveremo tutta l'acqua di cui abbiamo bisogno.”
De Pecchi rise sotto i baffi. “E così mi avete anche detto dove state andando... per essere due agenti in missione parlate un po' troppo...”.
Ramiro guardò Raúl con rimprovero. Le due forche erano l'unico luogo dove trovare acqua dolce oltre il guado.
“Comunque, mi offenderò se non prendete queste.” De Pecchi fece cenno ad un servo che stava in attesa sul portale, questi si avvicinò e porse ai due amici un involto ciascuno, tornandosene svelto dentro la torre. Raúl sorrise odorando l'aroma di focaccia che proveniva dal fagotto, e lo mise nella bisaccia della sella, imitato da Ramiro.
“Bene, grazie Osvaldo.” Ramiro allungò la mano verso De Pecchi.
“Solo un momento, amici miei.” De Pecchi trattenne le briglie dei due andalusi, sorridendo. Lo stesso servo arrivò lesto con un vassoio su cui vi erano un piccolo calderone di rame e tre coppe dello stesso metallo. Con un mestolo versò nelle coppe il liquido nero e fumante contenuto nel calderone.
“Un'altra specialità del tuo cuoco, Osvaldo?” Ramiro era rallegrato dal buon odore tonificante della bevanda.
“No, una cosa semplice, solo un infuso di orzo tostato, una vecchia abitudine di famiglia. Vi darà vigore per la giornata che state per affrontare.”
De Pecchi distribuì le coppe; i tre bevvero sollevandole in un brindisi. Le riposero quindi sul vassoio. Il servo se ne andò, e De Pecchi, dopo aver stretto le mani dei due cavalieri, li contemplò mentre, al passo, si dirigevano al guado.
Sulla riva, Ramiro osservò alcuni soldati che riempivano d'acqua delle grosse anfore di terracotta.
Ramiro e Raúl fermarono brevemente i cavalli sulla sponda, come in meditazione, si guardarono, quindi spinsero i destrieri nel fiume.
Dopo pochi passi l'acqua arrivava già al sottopancia. I due cavalieri si misero in ginocchio sulle selle, per non bagnarsi. La riva opposta era nascosta da una lieve caligine, e la piatta superficie del fiume, come uno specchio, sembrava stendersi infinita verso l'orizzonte. L'acqua verde del Vepia impediva di scorgere il fondo; i cavalli continuavano al passo senza timore, come se avessero attraversato il guado centinaia di volte.
“È proprio vero che bisogna fidarsi di più dell'istinto delle bestie che dei propri occhi.” Raúl aveva lo sguardo rivolto alle sue spalle.
Ramiro girò il volto indietro. Anche la riva sud era scomparsa dietro la nebbia, e solo una vaga sagoma opaca rivelava la presenza delle torri. I due amici sembravano sperduti in un mare infinito di scura acqua verde.
“Già... siamo al centro del guado. Sembra di passare all'altro mondo...” Ramiro pensò che ciò che aveva appena detto non era poi troppo distante dalla realtà. Stavano per fare un salto nel buio.
“Dicono che diversi hanno perso l'orientamento, qui al centro del guado, e i loro corpi sono stati poi ritrovati a valle. Perfino una intera compagnia a cavallo dell'Impero, al tempo della rivolta... così mi raccontò mio padre.” Raúl era cupo in volto, come sempre quando ricordava il padre, evidentemente pensando alla sua caduta in disgrazia.
“Sì, l'ho sentita anch'io, questa storia.” Ramiro allentò la presa sulle briglie. “Lasciamo che siano i nostri bravi animali a portarci sull'altra sponda.”
Raúl fece lo stesso. I cavalli seguirono il proprio istinto fino alla riva nord del fiume. La nebbia, diradandosi, aprì il suo sipario sulle terre piatte della Zona Neutrale. La Catena delle Aquile, grigia e alta, tornò a farsi vedere, lontana come la sera prima, lontana e all'apparenza irraggiungibile. Quando i cavalli si fermarono, come se consci di aver compiuto la missione di portare i loro cavalieri al sicuro, Ramiro e Raúl si resero conto di essere fuori dal fiume. Tornarono a sedersi sulle selle, e delicatamente spronarono gli andalusi, prima al passo, poi al trotto, verso est, verso le Due Forche.


LE DUE FORCHE

Nel tardo pomeriggio, i cavalli stanchi per il lungo trotto, Ramiro scorse le Due Forche. In fondo ad una piccola valle un ruscello si biforcava, ed ogni braccio si biforcava a sua volta prima di sfociare nel Vepia. Le acque erano talmente lente che dalla distanza non si apprezzava alcun movimento. Sembrava un dipinto. Era il luogo dell'appuntamento.
Ramiro fermò il cavallo, imitato da Raúl. Controllò le due balestre e le cinghie del corsetto di cuoio.
“Proseguiamo al passo, ora, e occhi aperti.”
Tesi come le corde di un violino, Ramiro e Raúl avanzarono verso la valle. Ramiro stava una ventina di passi innanzi, gli occhi si muovevano svelti verso ogni angolo della pista, verso ogni cespuglio, ogni masso, ogni possibile nascondiglio. Raúl volgeva lo sguardo ora a destra, ora a sinistra, ora indietro, velocemente, attento a possibili assalti alle spalle.
Arrivati a una cinquantina di metri dalla seconda biforcazione a valle del Vepia, Ramiro fermò il cavallo. Quando Raúl gli fu di fianco, gli fece cenno con il capo di guardare verso il centro della prima biforcazione del ruscello. Diversi uomini, a occhio e croce una ventina, stavano seduti intorno a un circolo di pietre, al cui interno visibilmente era stato acceso un fuoco ormai spento. Gli uomini stavano col capo reclinato, come se in meditazione, o assopiti.
Ramiro guardò Raúl. “Beh, sembrano sicuri del fatto loro. Nessuno di guardia, ed essi laggiù, pacificamente. Però non vedo Apollonia.”
“L'avranno nascosta. Forse dovremmo fare la stessa cosa con l'oro.”
Ramiro si chinò, scivolando sul lato sinistro del cavallo, e con un movimento fluido estrasse il cilindro dei pezzi d'oro dalla cintola e lo infilò sotto una delle tante pietre che circondavano le sponde del ruscello. Sempre piegato sul cavallo, sistemò altre due piccole pietre piatte sopra la prima. “Così lo ritroveremo.” Si tirò su quindi di nuovo in sella.
Scambiatisi un'altra occhiata, i due proseguirono risolutamente verso il comitato di accoglienza.
Passati i due rami della seconda biforcazione, volsero le cavalcature verso il centro della prima forca, al passo incontro ai banditi. Questi rimanevano seduti, apparentemente senza accorgersi dell'arrivo dei due cavalieri. Buttando lo sguardo rapidamente ai lati, temendo qualche trappola, Ramiro e Raúl avanzarono. A una trentina di passi dal gruppo, Ramiro si accorse che c'era qualcosa che non andava. Gli uomini erano rimasti assolutamente immobili tutto il tempo, e le loro posizioni sembravano in qualche modo innaturali. Ramiro decise di dar loro una voce.
“Ehi, del campo! Siamo qui, siamo arrivati!”
Nessuna risposta, nessuna reazione. I due si avvicinarono ancora.
A una decina di passi, Ramiro capì.
“Mio Dio! Cos'è questo?”
“È una mattanza, Ramiro, un massacro.” Raúl era sceso da cavallo, e si era accostato ad uno degli uomini. Il suo tono di voce non rivelava emozioni.
Ramiro restò in sella, incredulo, con la bocca aperta.
I venti uomini erano stati uccisi. Tutti. Tutti avevano la gola tagliata. I volti scarni, malnutriti, barbuti, sporchi, erano tumefatti. Il sangue raggrumato e nero macchiava tutta la parte anteriore dei loro vestiti, o per meglio dire dei loro stracci.
Raúl stava esaminando l'uomo a cui si era approssimato. “Chiunque abbia fatto questo lavoro conosce il mestiere... La gola non è stata tagliata con la lama, come farebbe un qualsiasi rapinatore pezzente dei nostri sobborghi, ma è stata perforata con la punta del coltello, e poi squartata in uscita... come si fa con i maiali.”
Ramiro si trovava sempre a disagio con gli impietosi e freddi commenti di Raúl, non vi si era mai abituato.
“Ma... chi può aver fatto questo? Li hanno praticamente giustiziati, uno per uno, e poi li hanno messi qui intorno al fuoco, seduti, come se stessero chiacchierando, o cenando... chi può aver compiuto tale... abominio... tale dissacrazione?”
Raúl era tornato verso il suo cavallo, si appoggiò con la mano sinistra alla sella, e guardò Ramiro con gravità. “Trovi la risposta su ognuno dei corpi.”
Ramiro socchiuse gli occhi, cercando di capire. Poi volse lo sguardo agli uomini, e si rese conto che tutti avevano uno stesso oggetto appoggiato al grembo. Smontato da cavallo, Ramiro si diresse verso il gruppo dei cadaveri. Si chinò sul primo che gli venne a portata di mano. L'oggetto era una carta da gioco di cuoio, grande quasi quanto un palmo. Una nera “A” era riportata in alto a sinistra e, capovolta, anche in basso a destra. Al centro della carta, un gallo da combattimento, anch'esso nero, mostrava gli speroni delle zampe e protendeva il becco aperto minaccioso, lo sguardo aggressivo.
La stessa carta, lo stesso Asso, era su ognuno dei corpi.
“I contrabbandieri!” Ramiro era in piedi, lo sguardo disperato fisso sulla carta che teneva nella mano destra.
“Già, proprio loro. Quello è il loro simbolo, il segno del loro passaggio. Vale più di qualsiasi messaggio, più di mille parole. Professionisti del crimine. Questi banditi al confronto erano dei ladri di polli.”
Raúl sembrava quasi che li ammirasse, dal tono di voce.
“Dannazione!”. Ramiro gettò via la carta in un moto d'ira. “Pensi che abbiano loro Apollonia, ora?”
“Puoi esserne certo. Anzi, credo che in qualche modo abbiano saputo del ricatto, e sono intervenuti. Forse avevano una spia tra i banditi. Evidentemente non hanno voluto lasciare ad altri tale affare.”
“E adesso, che facciamo?”
Raúl sorrise, quel suo sorriso beffardo. “Lo sai benissimo ciò che bisogna fare, amico mio. Bisogna andare da loro, trattare con loro.”
Ramiro volse lo sguardo verso nord ovest, verso le pendici della Catena delle Aquile. “Al Picco del Gallo?”
“Sì, mio buon Ramiro. Al Picco del Gallo, alla loro base, al loro castello.”
Ramiro non pensò subito ad Apollonia, ma a De Pecchi, e lo ringraziò mentalmente per aver insistito nel dar loro le focacce. Un lungo cammino li stava aspettando.
“Bisognerà avvisare il Barone... e De Pecchi...”
“Ti ha dato di volta il cervello, amico mio?” Raúl stava guardando Ramiro con una espressione facetamente severa. “Se torniamo dal Barone senza Apollonia quello ci fa rimpiangere la sorte dell'architetto del nostro Osvaldo; quanto a quest'ultimo, non c'entra proprio nulla, dimenticalo. Dobbiamo compiere la missione!”
Ramiro stette un momento con le braccia cadenti lungo il corpo. “Apollonia sarà al sicuro?”
Raúl non seppe trattenere una risata sommessa. “Sicuramente più al sicuro che con questi ex banditi. I contrabbandieri del Picco del Gallo sono una efficiente organizzazione. E poi non so chi è più al sicuro, con Apollonia di mezzo.”
Ramiro alzò il volto verso Raúl, e sorrise. Apollonia era una brutta gatta da pelare. Una sensuale bellezza, non si potevano toglierle gli occhi di dosso, quando la si vedeva non si voleva altro che starle accanto, inebriandosi alla voluttuosa sensazione che si provava semplicemente per la sua vicinanza. Quando ella, con una certa lascivia, ti toccava, l'erotismo che suscitava raggiungeva il tuo profondo essere con un brivido che ti correva lungo tutto il corpo. La sua voce era estasiante, il suo sguardo ti esaltava, il suo sorriso ti rapiva totalmente. Ma Apollonia non si concedeva mai; prometteva sempre, e sempre di più, fino a farti perdere la testa, poi ti mollava come un panno logoro e sudicio. Più di un nobile del Gran Feudo aveva perso famiglia, terre e fortune, per inseguire quella chimera. Anche Ramiro ci era andato vicino, ma si era ritratto in tempo, prima di essere punto mortalmente dal pungiglione di quell'affascinante scorpione. Immaginò già i guai che poteva far passare ai suoi nuovi rapitori.
“Ci fermiamo qui, direi. C'è acqua, e i ruscelli renderebbero rumoroso l'avvicinamento di eventuali aggressori. Domattina ci rimettiamo in marcia.”
“No, Raúl, caro amico mio. Non mi fermo qui con venti cadaveri accanto, grazie... Prendiamo l'acqua che ci serve, recuperiamo l'oro, e trottiamo verso nord ovest finché fa scuro. Poi ci fermiamo, dovunque ci troveremo.” Ramiro era risoluto, non sarebbe stato possibile convincerlo a restare in quel posto.
“Oh, Bleeding Heart, come direbbero i tuoi lontani parenti di Grainwall... va bene, sia ciò che vuoi.” Raúl riempì il suo otre di pelle di vacca con l'acqua del ruscello. Ramiro fece lo stesso con il suo, ma prese l'acqua a monte dei cadaveri.
Di nuovo in sella, di nuovo al trotto. Verso nord ovest, verso la punta estrema della Catena delle Aquile, dove si ergeva il castello dei contrabbandieri: il Picco del Gallo.
Le scure ali della sera avvolgevano i due cavalieri, seduti sulle coperte, in piena e aperta campagna, mentre consumavano una frugale cena a base di focacce grifonate e acqua. Le balestre armate accanto, le sciabole a portata di mano, i cavalli con pastoie strette fermi a due passi.
“Tu hai avuto una storia con Apollonia, vero?” Raúl era rilassato, come se si trovasse nel palazzo di Ramiro.
“Mmh... non proprio una storia. Mi ero... innamorato, o forse, ripensandoci ora, era più lussuria che amore. Apollonia giocò un po' con me... mi inviava lettere, mi mandava ambasciate, mi invitava a feste o cene dove non mi degnava neanche di uno sguardo, per poi ripresentarsi qualche giorno dopo piena di attenzioni e ammiccamenti. Quindi, invaghitomi di nuovo di lei, ricominciava il gioco... teneva per mano qualche altro nobile in mia presenza, ai balli danzava con tutti tranne che con me, e così via. Riuscii a tirarmene fuori prima che fosse troppo tardi. Smisi di rispondere alle sue missive, smisi di andare alle sue feste, finché un giorno giunse in carrozza al mio capanno di caccia, arrabbiata ed offesa per il mio silenzio e mancanza di galanteria. Io le dissi che mi stava spaventando la selvaggina. Ella spalancò quei begli occhioni neri, incredula, aprì la bocca come per dir qualcosa, poi la richiuse, girò su se stessa, e se ne andò. Non la rividi più, né seppi più nulla di lei fino alla visita di suo padre, due settimane fa.”
Raúl stava guardando Ramiro con aria compatita. “Ma eccoti qui, pronto a salvarla.”
“Già... ma non tanto per Apollonia. L'avrei fatto per chiunque.”
“Sì, lo so. E lo sa anche il Barone. A volte penso che il Barone conosca meglio noi tutti che sua figlia. Sembra che anche da giovane fosse una grana. Dicono che se ne andasse in giro la notte, senza che i suoi ne sapessero nulla, uscendo dalla finestra della sua camera mentre la nutrice complice, rimasta dentro, continuava a leggere storie ad alta voce.”
Ramiro si alzò di colpo dalla coperta.
“Ehi, che c'è?” Raúl afferrò le balestre, pronto a colpire.
Ramiro sollevò le mani con i palmi aperti, come a rassicurare Raúl.
“Nulla, nulla, tranquillo. È solo ciò che hai appena detto. Sei sicuro che la nutrice le leggesse delle storie?”
“Beh, così mi han detto, ma che c'è di tanto orribile in questo?”
Ramiro si rimise seduto. Quella strana sensazione di anomalia provata durante l'incontro con il Barone era tornata di colpo e potentemente a farsi sentire.
“Licata mi ha detto che la nutrice di Apollonia è analfabeta.”
Raúl ebbe un sussulto, il volto assunse una espressione sconcertata, ma fu solo un fugace momento. “Mmh... strano. Forse è un'altra nutrice.”
“Forse... ma di nutrici normalmente ce n'è solo una.”
“Forse non le leggeva, le storie, ma le recitava a memoria. In molti lo fanno.”
“Non so, Raúl. Le stranezze aumentano. Il luogo del rapimento indicatomi dal Barone che non mostra alcuna traccia; nessuno al presidio ha visto né sentito nulla; è impossibile passare il Vepia se non dal guado, eppure i banditi hanno portato Apollonia oltre il confine; e ora la nutrice che non sembra essere analfabeta come mi aveva detto il Barone... non so più che pensare.”
“Chiederemo delucidazioni sulle modalità del rapimento ad Apollonia quando la libereremo. La questione della nutrice analfabeta o meno non mi sembra in realtà importante, amico mio. Pensiamo alla nostra missione e portiamola a termine, ed ora facciamoci una bella dormita. Stabiliamo turni di guardia?”
“Sì, forse è meglio. Comincio io, tanto non riesco a prendere sonno. Ti sveglio poi.”
Raúl fece un cenno di assenso con la mano, come un saluto, e si avvolse nella coperta appoggiando il capo sulla sella adagiata in terra. Ramiro si stese addossando i lombi alla sua sella e tirandosi la coperta alla vita. La posizione scomoda lo avrebbe aiutato a star sveglio, anche se i pensieri che vorticavano nella sua mente non lo avrebbero lasciato comunque dormire. Ora era riuscito finalmente a dare un senso a quella strana sensazione provata nel colloquio con Licata. Il suo sesto senso aveva captato un'anomalia; e l'anomalia era che il Barone stava mentendo. Ma il motivo gli sfuggiva ancora. Forse aveva ragione Raúl. Avrebbero compreso meglio la situazione quando avessero ritrovato Apollonia.
La prima luce dell'alba vide i due cavalieri già al passo, diretti con decisione verso nord ovest lungo la sconfinata pianura che l'occhio non riusciva a delimitare innanzi a loro. Sulla destra, la Catena delle Aquile sembrava accompagnarli nel loro viaggio, ma non come una amichevole guida protettrice, piuttosto come un'ombra ostile che sembrava potersi materializzare in qualsiasi momento in un nemico agghiacciante.
Ramiro e Raúl stavano in silenzio, pensando al nuovo, lungo viaggio che li attendeva. Il Picco del Gallo era una elevata formazione rocciosa che si ergeva all'estremità nordoccidentale della Catena delle Aquile, la quale si sviluppava oltre la Zona Neutrale, in direzione nord ovest – sud est, segnando il confine sud-occidentale dell'Impero. Dalle Due Forche a tale margine della Catena occorrevano almeno quattro giornate a cavallo. I due erano concentrati ed inquieti, poiché la pianura che stavano percorrendo, pur lasciandoli allo scoperto e visibili da grande distanza, era piena di avvallamenti, dossi, irregolarità del terreno ora lievi ora marcate, cespugli, piccole macchie di arbusti: tutti possibili nascondigli per eventuali assalitori.
“Sembra che i contrabbandieri godano della protezione imperiale.” Ramiro parlava a voce bassa, quasi sussurrando, come temendo di poter essere udito fino ai confini della pianura.
“Mah... c'è chi dice che il loro castello sia imprendibile.” Nella voce di Raúl si sentiva ancora una nota di ammirazione.
“Può essere. Tuttavia ricordo che mio padre diceva che essi svolgono diversi servizi innominabili, a vantaggio di vari potenti dell'Impero. Il contrabbando, ovvio, dato che l'Impero è sempre stato un territorio richiuso su se stesso, ma i cui boiardi non si sono mai fatti mancare nulla, a cominciare dalle lussuose merci del Ducato di Grainwall. Ma oltre a ciò... omicidi su commissione; assalti intimidatori; minacce ai familiari di funzionari riformatori...”
“Vuoi dire che, secondo te, dietro il rapimento di Apollonia c'è la mano dell'Impero?”
Ramiro non aveva rivelato a Raúl che Apollonia avesse un amante segreto, e che tale amante fosse nientemeno che il Principe Imperiale. Fu tentato per un momento di svelarlo, ma aveva fatto una promessa e, anche se fatta al Barone Licata, era sempre una promessa.
“No, non dico questo. Ma rapire la figlia di uno dei sette Baroni con cui l'Imperatore ha firmato un trattato... potrebbe creare loro più problemi che guadagno.”
“Mmh... prima di tutto non l'hanno rapita loro, l'hanno solo prelevata da dei banditi che hanno giustiziato. Potrebbero sempre affermare di averla in realtà salvata. Poi, se come dici tu hanno reso dei servizi innominabili a dei potenti, questi sono diventati automaticamente da essi ricattabili, e non credo che qualcuno di quei boiardi abbia convenienza a metter becco nei loro affari.”
“Già. Forse è come dici tu, o forse...” Ramiro si interruppe all'improvviso, fermando il cavallo, imitato da Raúl. Di fronte a loro, a circa venti passi, era emersa dal nulla una figura umana, la cui umanità era solo vagamente riconoscibile nel volto smunto, scavato, negli occhi ingialliti e cattivi, nei capelli lunghi, unti di sporcizia e non curati che cadevano disordinatamente sulle spalle. Il suo abbigliamento era un ricettacolo di epoche e stili diversi. Un tricorno di una stoffa il cui colore originario era irriconoscibile; una giacca da dragone imperiale, stinta e logora, con una chiazza scura sul petto, palesemente di sangue rappreso del corpo da cui era stata sottratta; una bandoliera di cuoio bianco ingrigito a cui era appesa una sciabola, senza fodero, la cui lama era penosamente macchiata di ruggine; un lurido perizoma di un nauseante colorito giallo marrone grigio se ne stava cadente tra due alti stivaloni di cuoio di un marrone annerito, con la fibbia d'oro sulla tomaia, che giungevano fino all'inguine.
Ramiro soffermò lo sguardo sulla tomaia dello stivale sinistro, aperta sulla suola, che lasciava intravedere dita ricoperte di una patina nerastra; poi sul cespuglio alle spalle dell'uomo, dal quale evidentemente questi era saltato fuori; poi di nuovo sul volto smunto. In quel momento l'uomo aprì la bocca in un ghigno, uno schifoso ghigno di denti gialli, denti neri, denti mancanti. Nello stesso istante un rumore diffuso di movimento fece ruotare lo sguardo di Ramiro e di Raúl intorno a loro. Erano circondati. Una quindicina di esseri, in tenute simili a quello che presumibilmente era il loro capo, con il fisico ugualmente trascurato e con lo stesso tanfo di sudore vecchio e rancido addosso, stavano puntando le loro armi, anch'esse dello stesso tenore degli stracci indossati: archi, balestre, alabarde, spade, lance, un paio di bastoni appuntiti e perfino una mazza da scalpellino.
Ramiro ebbe appena il tempo di pensare che si erano fatti fregare come due polli, quando il ghigno dell'uomo saltato fuori per primo si trasformò improvvisamente in un rantolo. Ramiro lo guardò portarsi le mani alla gola, e solo in un secondo momento si accorse della freccia che gli aveva trapassato da parte a parte il collo. L'uomo cadde riverso in avanti, e come lui caddero altri tre dei suoi, uno all'indietro con una freccia nel petto, gli altri due in avanti con due frecce ciascuno nella schiena.
Sul volto degli altri banditi apparvero stupore e paura, cominciarono a guardarsi intorno agitati, continuando a puntare le armi verso Ramiro e Raúl, i quali alzando gli occhi sopra le teste dei malviventi videro uno spettacolo incredibile: nel raggio di una cinquantina di passi vi era una ventina di cavalieri, che ruotando al galoppo intorno al gruppo dei banditi scagliava frecce con una rapidità incredibile. I cavalieri erano montati su arcioni, cavalcando all'amazzone. Ramiro si accorse che erano tutte donne, vestite solo di vaporosi perizoma; tendevano gli archi sui loro seni nudi brillanti al sole del pieno giorno, e già alla distanza si percepiva il loro sguardo fiero e deciso. La grazia femminile con cui montavano i destrieri, la fluidità del movimento nel prendere la freccia dalla faretra agganciata all'arcione e scoccarla, la bellezza dei loro corpi nudi e lucenti che sembravano propaggini del loro animale, la maestria nel cavalcare al galoppo senza tenere le briglie, dipingeva una scena surreale di splendore, di grazia, di avvenenza, di fascino e di armonia. Ma dai loro archi arrivava la morte.
Altri tre dei banditi caddero, come bersagli, e come bersagli gli altri continuavano a starsene lì fermi, guardandosi intorno, come se paralizzati dalla scena che si svolgeva intorno a loro, come se non si rendessero conto di essere loro i destinatari dei messaggi di morte che volavano sulle frecce delle cavallerizze. Continuavano a puntare le armi contro Ramiro e Raúl. Quest'ultimo passò all'azione, scoccando i dardi delle due balestre, sguainando la sciabola, e nel giro di tre secondi abbatté quattro briganti. Ramiro lo imitò all'istante, e altri quattro fecero la stessa fine, due caddero con i dardi conficcati nel petto, altri due con le teste mozzate di netto dalla sciabola, teste che rotolarono accanto ai loro corpi decapitati.
L'ultimo dei banditi sembrò finalmente rendersi conto di ciò che stava succedendo, e lasciato cadere il suo bastone appuntito iniziò una tarda ed inutile fuga, che durò solo tre passi prima che una freccia lo trafiggesse sotto la nuca, fuoriuscendogli dalla bocca aperta in una ansimante espressione di terrore.
Ancora a cavallo, con le lame delle sciabole insanguinate, Ramiro e Raúl guardarono le cavallerizze, le quali, portati i cavalli al passo, si stavano avvicinando. Ramiro posò lo sguardo sui nudi corpi lucenti, i seni perlati di sudore, i petti ansimanti per lo sforzo della battaglia. Nei loro occhi non vi era ostilità, ma neanche cordialità. Le ragazze li stavano osservando senza tradire alcuna emozione. Gli archi non erano armati, e Ramiro vide che si trattava di archi ricurvi; immaginò la forza e il lungo addestramento necessari per poterli utilizzare. Guardò Raúl, e gli fece un cenno con il capo come a domandargli se sapesse chi fossero; Raúl alzò debolmente le spalle. I due erano allo stesso tempo imbarazzati e impacciati, non sapevano che fare; le ragazze continuavano a fissarli, ed i loro corpi provocavano un sentimento misto di interesse e timore. Dopo qualche istante, Ramiro, vedendo che le intenzioni delle cavallerizze non erano ostili, estrasse un panno dalla borsa della sella e vi pulì la lama della sciabola dal sangue. Poi rinfoderò l'arma. Raúl rimase ancora un po' con la sciabola sguainata, poi imitò Ramiro.
Alcune delle ragazze scesero da cavallo, e rapidamente fecero il giro dei corpi dei banditi, raccogliendo delle armi, quelle in migliori condizioni, e spogliando i cadaveri di ciò che sarebbe potuto tornare utile. Uno dei banditi si mosse, evidentemente era rimasto solo ferito, anche se senza sensi; la ragazza che lo stava depredando, con un unico movimento estrasse un coltello e glielo infilò sotto il mento. Ramiro udì netto il colpo della punta della lama sull'interno della calotta cranica del brigante. La ragazza pulì il coltello sui vestiti del morto, lo rimise nel fodero agganciato alla cintura di cuoio che le cingeva il perizoma alla vita, e continuò a svestire il cadavere. Il volto della ragazza non aveva fatto una piega, lo sguardo non aveva tradito il minimo turbamento, era come se invece di aver appena ucciso un uomo avesse infilato uno spiedo in un pezzo di carne pronta per essere arrostita.
“Conti di Baronia, benvenuti nella Zona Neutrale!”
Ramiro alzò lo sguardo verso la sua sinistra, da dove aveva parlato una schietta e squillante voce femminile. Una ragazza, anch'ella a cavallo, si trovava a tre passi da lui. Non era nuda come le altre, ma portava una azzurra tunica che dalle spalle le vestiva l'intero corpo. Le braccia scoperte mostravano ben segnati i muscoli. I polsi erano cinti da diversi bracciali d'oro e d'argento. I capelli ricci erano di un rosso ramato, gli occhi verdi, la carnagione chiara e lentigginosa. Il volto squadrato ma dolce nei lineamenti. Le sue labbra rosse e sottili si aprirono in un gradevole sorriso, in una bocca un po' troppo grande rispetto al piccolo naso, ma piacevole a vedersi.
“Il rubino sulle vostre sciabole vi identifica, e i begli andalusi che montate su selle portoghesi argentate indica che siete gente di mezzi. Non c'è da stupirsi che attiriate l'attenzione di briganti come questi.” La ragazza indicò i corpi dei banditi con un cenno della mano, un cenno di rapida alterigia, come se indicasse dei rifiuti.
Ramiro le sorrise di rimando. “Tu sei di Grainwall.”
La ragazza spalancò gli occhi, e il sorriso le scomparve dalla faccia. “Come fai a dirlo?” Il tono della sua voce tradì un leggero tremito.
“Parli bene la nostra lingua, senza inflessioni. Ma hai pronunciato 'Baronia' con l'accento sulla prima sillaba e hai usato l'espressione 'gente di mezzi' per indicare che non abbiamo problemi di denaro. 'Barony' and 'people of means' are just as one would say in Grainwall, my dear.”
La ragazza tornò a sorridere, gli occhi assunsero una espressione divertita. “Vedo che anche tu parli bene la mia, di lingua. D'altronde, non potrebbe essere altrimenti, Duca Ramiro Francisco Burton De la Flor.”
Ora fu Ramiro a spalancare gli occhi e a perdere il sorriso. “Mi conosci?”
La ragazza fece un risolino, come a sottolineare che aveva avuto lei l'ultima parola e voleva mantenerla. “Faremo poi le presentazioni. Ora dovete seguirci.”
Raúl si erse sul cavallo. “Beh, mio caro Ramiro, sembra che tu sia famoso anche da queste parti. Comunque, mia signora, la ringraziamo per averci dato una mano con questi briganti, ma dobbiamo proseguire per la nostra strada, quindi...”
La ragazza spinse il suo cavallo, baio come quello di Raúl, anche se non di razza pura, contro l'andaluso di questi, quasi a speronarlo. Guardò Raúl dal basso verso l'alto con una espressione piena di fierezza e fermezza. “Primo: non vi abbiamo dato una mano, vi abbiamo salvato la pelle; secondo: non sono la tua signora; terzo: quando io dico che voi venite con noi, voi venite con noi!”
Le altre ragazze rimaste lì intorno sollevarono leggermente gli archi, e portarono l'altra mano alla faretra, accarezzando le piume delle frecce. Il movimento era allo stesso tempo sensuale e terrificante. Raúl guardò Ramiro. Questi osservò i volti delle ragazze. Alcuni ovali, altri squadrati, altri ancora rotondi, i capelli lisci, ricci, biondi, mori, gli occhi di tutte le tonalità dal nero al verde all'azzurro al grigio. I lineamenti, il naso, il taglio degli occhi, le carnagioni dal moro al bianco latte rievocavano le bellezze di tutte le terre al di qua e al di là del Vepia, dalle più remote propaggini sud-occidentali di ciò che ora era Baronia alle brulle steppe orientali dell'Impero, ed anche quelle della bella isola di Grainwall e della penisola del nord.
Ramiro volse lo sguardo verso la ragazza che ora si trovava tra lui e Raúl. “Venire con voi... dove?”
“A Eskilom.”
Ramiro e Raúl si guardarono stupiti. Eskilom! Dunque esisteva davvero. Non era solo una leggenda, una storia raccontata ai bimbi davanti ai fuochi della sera. Quel luogo esisteva davvero. E tra poco l'avrebbero visto.


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