Fantasmi? - orrore

La villa della storia esiste davvero. E i fantasmi? Così dicono...

FANTASMI?

Per gli abitanti di Acquaverde quella era una casa da cui star lontani, molto lontani.
Per Marco era una casa dall’affitto straordinariamente basso, ottima cosa per uno ‘al verde’ come lui.
Non riusciva a comprendere come potesse il proprietario di Villa Enrica vivere in un albergo spendendo più di quanto non ricevesse dall’affitto della casa.
Non riusciva nemmeno a comprendere perché non appena si parlava di quella villa la gente del posto cambiava immediatamente discorso.
Erano tante le cose che non riusciva a comprendere del comportamento della gente di Acquaverde, ma francamente non gliene importava un accidente.
Era riuscito a trovarsi una villa appartata ad un affitto praticamente inesistente e poteva dedicare anima e corpo al suo lavoro. Questo era tutto ciò che gli importava.
Marco era uno scrittore, ma da molto tempo non era più riuscito a scrivere una sola riga. Soffriva di quello che viene chiamato 'il blocco dello scrittore', e sperava che un cambiamento d’aria gli avrebbe fatto bene.
Viveva in quella villa da due giorni quando cominciò ad avvertire uno strano senso di oppressione.
Pensò di andarsene al bar del paese.
Uscì dalla villa quella fredda mattina d’autunno. Le foglie cadute ricoprivano come un tappeto giallo-marrone-rosso il vialetto che portava dalla massiccia porta di legno della villa al cancello di ferro.
Il cancello si aprì con uno stridio sinistro che gli fece ricordare un paio di films dell’orrore che aveva in videocassetta.
Iniziò a camminare, nella nebbia più fitta che avesse mai visto, lungo la strada di ghiaia che lo avrebbe portato in paese.
Arrivò in paese tre quarti d’ora più tardi.
Entrò nel bar e andò al banco. 
“Un caffè, per favore.”
Il barista si mise all’opera. Marco si rese conto, improvvisamente, che la nebbia che lo aveva accompagnato dalla villa fino all’entrata del bar era scomparsa. 
“Tempo strano, eh?” 
“Perché?” rispose il barista guardandolo come se avesse detto la sciocchezza più grossa che si potesse mai dire. 
“Beh... La nebbia. È scomparsa in un attimo.” 
“Quale nebbia? Se non abbiamo da settimane una mattina così limpida!!”
Ora il barista lo guardava come se fosse matto.
'Qui i casi sono due', pensò Marco, 'o è matto lui, o sono matto io.' 
“Può anche esserci un terzo caso!”
Marco si voltò di scatto verso il luogo da dove proveniva la voce, stupito che qualcuno avesse potuto leggergli nel pensiero.
Una vecchietta stava bevendo un tè, posò la tazza e ricominciò a parlare: “E cioè che né tu né lui siete matti... è la casa... è la casa maledetta... ucciderà te come ha fatto con mio marito...” 
“Sta’ zitta, vecchia strega... sta’ zitta se non vuoi...” 
“No, la lasci parlare, invece.”
Marco aveva interrotto bruscamente il barista, e si rivolse alla donna: “Continui, la prego. Come è morto suo marito?” 
“Loro... i morti di quella casa... i fantasmi...” 
“Non vorrà dar retta alle pazzie di questa donna, spero!”
Marco cercò di farla continuare, ma non disse più una parola. Comunque sentiva, anche se la storia dei fantasmi sembrava assurda, che c’era qualcosa di vero e di terribile in quello che la donna aveva detto.
Decise di andare a parlare con il proprietario della casa.
Entrò nella sala d’aspetto dell’albergo e chiese del signor Belli.
Dieci minuti dopo si incontrarono. 
“Voleva vedermi? Qualche problema?” 
“Una vecchia, prima, al bar, mi ha raccontato una strana storia sulla villa.” 
“Ah... capisco di chi parla... vuole qualcosa da bere? È una vecchia pazza, non deve darle retta.” 
“No, grazie, non bevo. Mi ha parlato di suo marito ucciso, di gente morta...” 
“Suo marito lo ha ucciso lei, venti anni fa, in una festa che diedi a Villa Enrica. Disse che erano stati i fantasmi. Venne giudicata labile di mente dal tribunale e stette dieci anni in manicomio. Quindi, come può vedere...” 
“E gli altri morti?” 
“In quella casa morirono alcuni miei parenti, precedenti proprietari, alcuni uccisi da consanguinei, altri suicidatisi. Un brutto capitolo per la mia famiglia. Comunque nessun pericolo, glielo assicuro.” 
“Se non c’è nessun pericolo perché lei non ci abita, e perché la gente non vuole sentir parlare della villa o di fantasmi?” 
“La gente è superstiziosa, lo dovrebbe sapere, lei che è uno scrittore. In quanto a me, non ci abito perché mi ricorda troppi dolori, troppe morti in famiglia.” 
“Beh... sì... però continuo a non capire perché l’affitto sia così basso.” 
“Se vuole glielo alzo.” 
“Per carità, non si scomodi.”
Marco non voleva più saperne di fantasmi. Tornò alla villa e fece appena caso alla nebbia che lo avvolse appena fuori dal paese.
Il sole era appena un disco luminoso dai contorni molto ben definiti, tanto era fitta la nebbia che impediva ai suoi raggi di filtrare. 
“Marco.”
Era una voce strana, tra il metallico e l’ovattato. 
“Maar-co.”
Ora la sentì più vicina. Alla sua destra. Si voltò e lì, a due palmi dal suo naso, vide... l’orrore.
Svenne.
Si risvegliò che non c’era più la nebbia. Non c’era più neanche il sole. Era notte.
Si affrettò verso la casa senza ben comprendere cosa gli fosse successo.
Arrivò al cancello ancora intontito.
Lo aprì. Il cigolio questa volta gli diede i brividi.
Mentre attraversava il vialetto si ricordò di ciò che aveva visto quella mattina al ritorno.
Era stato orribile. Un essere scheletrico, in una veste bianco-giallognola, gli occhi bianchi senza iride o pupilla, vermi che gli spuntavano dalle narici e dalle orecchie; ma la cosa che gli aveva fatto veramente paura era l’espressione malvagia del volto, quel ghigno da teschio, quella cattiveria di cui l’essere sembrava pieno.
Entrò in casa, chiuse il portone e salì la lunga scalinata che portava in sala da pranzo. Aveva assolutamente bisogno di mettere qualcosa, qualsiasi cosa, sotto i denti. 
“Perché non provi con questo?”
Era la voce di quella mattina. Si voltò e rivide l’essere che gli porgeva un vassoio con dentro una testa umana mezzo divorata da vermi. 
“C’è poco da mangiare, lì.”
Si stupì di questa improvvisa ironia che lo aveva spinto a parlare in quel modo. Era strano, non provava più nessuna paura o senso di orrore. 
“Stupito, eh?” riprese l’essere “Non ti sei ancora accorto di non essere più quello di sempre?”
Marco si guardò e si rese conto di essere meno consistente nel fisico, più... vaporeo.
Corse verso lo specchio della sala ma... niente... non si rifletteva. Si voltò verso l’essere in cerca di qualche spiegazione, non ancora convinto di essere sveglio.
'Impossibile', pensò, 'sto ancora dormendo. Adesso mi sveglio e torno alla casa.' 
“Ci sei già, alla casa, stupido morto.”
Anche l’essere, come la vecchia, leggeva nel pensiero. 
“Stupido morto? Ma morto sarai tu, scheletraccio!” 
“Certo che sono morto, che ti credi? Comunque non mi chiamo scheletraccio, ma Alberto. Una volta ero il padrone, qui.” 
“No... non ci credo.” 
“Nessuno crede di essere morto, quando muore. Mi dispiace, volevo solo farti un po’ di paura, non farti prendere un infarto.” 
“Ma io sono svenuto. Non sono morto.” 
“SEI MORTO. Lo vuoi capire? Tutti sono morti. Anche la vecchia che ti ha letto nel pensiero è morta. Tutti quelli che sono stati in questa casa sono mo-r-tii.”
La voce si affievolì fino a scomparire. Poi il buio. Poi la luce.
Marco si risvegliò in un letto. C’era un tizio con occhiali tondi che lo squadrava. 
“Dove sono?”
La sua voce era poco più di un bisbiglio. 
“Siete in un letto a casa mia. Sono il medico di Acquaverde.” 
“Un... medico? Non sono... morto?” 
“No, ma c’è mancato poco. Che vi è successo? Vi hanno trovato sulla strada per la villa. Svenuto.” 
“Io... non ricordo. Credo di aver fatto un brutto sogno.” 
“Già. Beh, ora cercate di riposare.”
Due giorni dopo Marco era abbastanza in forma per viaggiare. Sarebbe tornato a casa a scrivere. Ora non era importante che cosa o come. Qualcosa avrebbe scritto.
Mentre si allontanava per sempre (sperava) da Acquaverde si soffermò sui misteri che si stava lasciando alle spalle: la vecchia che legge nel pensiero (o era solo una coincidenza che lui avesse pensato in quel modo e che lei fosse partita in quarta con uno dei suoi raptus?), la nebbia che aveva visto solo lui (o il barista che aveva voluto prenderlo in giro?), la voce e l’essere nella nebbia (o si era lasciato suggestionare da tutte quelle storie di morti?).
Solo di una cosa era sicuro: non sarebbe più tornato, di sua volontà, in quel posto di m...

Cesare Bartoccioni
28 novembre 1991

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