I due titani - capitolo primo: La scommessa



Capitolo primo
LA SCOMMESSA

“Ateniese, adesso basta!”
Vulcano di furor gioviale, pelle perlata di sudor d’agone e venata di robusta fibra, di lato andava sul cerchio esterno, sguardo fisso al lottatore avverso, sorriso di sfida in occhio fiero.
“Vieni, vieni, lacedemone, con gran ansia io ti attendo.”
Tenzon raccolta con beffardo riso, pronto alla presa ennesima, sicuro per passate prove e per pratiche ai più ignote, fermo e certo al centro stava.
In alto, sui lor troni, deferenti ai piè del sommo Zeus su pacifica Olimpia eretto, i lor campioni guatavan, ansiosi e tesi, d’Eracle Leonida e di Frearri Temistocle, maestosi e insigni.
Più in alto ancor, distanti e distinti, altri ben più sommi la scena rimiravan.

“Di spalle sei irresistibile, te l’ho mai detto?”
Il giovane si era avvicinato all’incantevole donna intenta con lo sguardo giù oltre il candido balcone. La ragazza volse il capo a mezzo, l’occhio di verde giada a palpebra socchiusa ammiccava su un sorriso beffardo e ammaliatore tra belle e tumide labbra.
“Non c’è che dire, Ermes, coi complimenti ci sai proprio fare.”
Il giovane fu da lei in un lampo, e la mano allungò verso le nude spalle.
“Non provarci neanche! Se ti vede Efesto te le dà lui, le alette ai piedi.”
Il ragazzo si bloccò. Si ritrasse a testa bassa, come offeso.
“Ma, insomma, non ho proprio speranza? Eppure Ares mi diceva… ”
Il giada dell’occhiata con cui la bella rossa fulminò il giovane aveva la durezza del diamante, e del diamante emanava trasparente freddezza.
“Lascia perdere, protettore di ladri e viandanti.” La voce, in contrasto con lo sguardo, era dolce e calda. “Piuttosto, da’ un’occhiata.” Con un cenno del capo indicò l’incontro di lotta che, ormai da ore, continuava sotto il sole, senza vinti né vincenti.
Ermes si sporse dal balcone. Aveva già recuperato la sua puerile giovialità.
“Ah, sì, quei due… Eh, non si fa altro che parlar di loro, giù dai mortali. Una noia… Ogni volta che devo portare un messaggio mi devo sorbire le gesta raccontate di villaggio in villaggio... E l’ateniese qui, e lo spartiate lì…”
“Però sono bravi, non trovi? E il loro spietato agonismo contiene una misura di rispetto e di stima come qui non s’è mai vista finora.”
“Mah… per me quello che fa il duro, lì al centro del cerchio, ha fatto il suo tempo. Lo spartiate lo spezza in due.”
“Mmmhhh…” la ragazza si portò il pollice alla bocca, e lo morse leggiadra tra i denti, “non sono sicura, l’ateniese sa il fatto suo, la partita è tutta da giocare…”
“Bah… voi donne, di sport non ne capite un’acca.”
“Più di te sicuro, lo dice anche Era...”
Ermes fece spallucce, sbuffando.
“Dai, Era è arrabbiata con me per i tanti amori che io… beh, lo sai, no? Date le dimensioni del…”
“Falla finita, beccamorto.”
Ermes sospirò, esasperato.
“Oh per Zeus! Perché sei sempre così dura con me, Afrodite? Insomma, che ti ho fatto di male?”
Afrodite si avvicinò lentamente al giovane, accostò il volto al suo, socchiuse il giada dei brillanti occhi ovali, le ricce rosse e lunghe ciocche sfiorarono il petto di lui, le labbra dei due quasi a toccarsi.
“Non è quello che mi hai fatto, postino. È quello che non mi hai fatto.”
La ragazza si allontanò repentina, lasciando il giovane all’asciutto, nella sua turgida disperazione.
Ermes fissò lo sguardo sulla veste di seta ultramarina, aperta alle spalle fino ai fianchi, che gli sfuggiva, di nuovo, come sempre.
Improvvisa, Afrodite si fermò. Si volse. Lanciò una penetrante occhiata di sfida.
“A noi donne piace esser corteggiate, con grazia e rispetto.”
Ermes corrugò la fronte. Afrodite scosse il capo.
“Ma dato che con te è inutile anche solo parlarne, caro mercante di parole, ti darò una sola possibilità.”
Gli occhi del giovane si rianimarono di rinnovata speranza.
“Quale? Dimmi! Quale?”
Afrodite strizzò gli occhi.
“Se il tuo campione vince, mi avrai. Se vince il mio, non dovrai più neanche pensarci.”
Ermes si erse, imbaldanzito.
“Ah! Accetto, accetto! È come se fossimo già sposati!”
“Sono già sposata, e mio marito è uno che non scherza.”
“Sì, sì, certo, va bene, va bene. Capirai… ora mi faccio scrupoli coi maniscalchi, figurati… Allora è deciso, eh?”
“Certo. Ho una sola parola, io.”
“Sì, ma… niente trucchetti, eh? Niente cinture magiche, stavolta…”
Fu Afrodite, ora, a sbuffare, tra l’infastidito e il divertito.
“Uff…, ancora quella storia… A parte il fatto che se tu fossi dello stampo di Adone non avresti bisogno di far scommesse, ma poi che c’entra… non li devo mica far innamorare…”
“Ecco, brava, non lo fare, e non metterci il tuo zampino ingannatore, eh? Gioco pulito.”
“Gioco pulito, certamente, mio caro.”
I due tornarono al balcone, affacciato su impenetrabile nube dal celestiale Monte Olimpo, fissando gli occhi sui lottatori che, sulla calda sabbia dell’Olimpia terrena, in sano e personale agonismo, senza saperlo e senza volerlo, mitigavano e appianavano, nella loro individualità, gli antichi rancori collettivi delle loro due città.

All’orecchio del re avverso pose il labbro, arconte scaltro.
“È ben ch’esistano, siffatti giochi, eh, Leonida, sei d’accordo?”
General, poca favella, avulso ai riti della polis, l’eracleo milite in sornione ghigno il capo chinò.
“Quel che vuoi dirmi di’ pure, con parole ch’io capisco. A te, Temistocle,  conosco.”
In ampio rassegnato sorriso divertito, Temistocle la bocca sardonico aprì. E i due lottatori avvinghiati indicò.
“Dico, buon Leonida, che le nostre due città, se fosser poi unite, nessun le batterà.”
“Ah…, ateniese tremulo, paura tua mi pare!”
“Mah… in mare siamo i primi. E voi i primi in terra. E il pargolo ammassando le truppe lui sta già, son certo lo saprai, risponde a verità?”
“Eh già… del padre suo il lavoro, lui pensa finirà.”
“Esatto. E noi, uguale al padre, finirlo lo dobbiam. Che dici tu di ciò, Leonida, sì o no?”
Leonida i lottatori a rimirar tornò, e la sinistra in gesto di scherno sollevò.
“Dico che, arconte caro, goder voglio la tenzone, ed in questo bel momento non c’è polis né questione, dal sapor che già m’è amaro, vedo sol combattimento.”
I due campioni, in presa saldi, forza tenacia esperienza e sagacia, in fulcro di bilancia perfetto le lor città tenean, sì che vincenti ambi, e ambe, parean.
“Non è che come allora, al fin voi tutti fate, e al tempo della pugna, Leonida v’imboscate?”
L’eracleo con duro sguardo l’altro folgorò.
“Per regola e norma posta, Temistocle mio caro, noi mai siamo imboscati, in tutta vita nostra. Per chi, come già me, superato ha l’agoghé, la parola imboscato non c’è in vocabolario. Quel tempo alto e impellente, di nostra religione, motivo immantinente c’impedì la formazione…”
“Già, già… certo è palese. Ma dimmi, con gl’Iloti, va ora tutto bene?”
Socchiusi in due fessure gli occhi adirati, il re cittadino sbuffò dalle sue nari, qual toro a colpir pronto.
Ma infausto araldo giunto in corsa, ansimante a Temistocle la trista nuova porse. Nei sacri tempi dei giochi d’Olimpia, il pargolo, sacrilego, degli dei sprezzante, avea Poseidone flagellato.
A lungo araldo e arconte, fitti confabularon,  poi il primo ebbe nuov’ordini, che ai suoi lo rimandaron.
Sul trono bello e decorato, da officianti lì approntato, Temistocle lo sguardo volse ben in alto, alla di Zeus immagine scolpita sullo spalto.
“Oh achemenide blasfemo e indegno! Osar tanto e flagellar sacro fratello. Ma non temere, o Zeus potente, la notizia di tal atto empio va per l’Attica viaggiando! Noi ateniesi promettiamo vendicar cotanto male, sarem duri coi nemici, certi dei tuoi giusti auspici.”
Ghigno d’opportunista arconte, rotto per mestier d’ogni evento profittar, Temistocle gli occhi a Leoinida volse.
“Sarete voi con noi? Vi unite a riparar l’oltraggio inaudito?”
Incomodo Leonida sul suo tron si sistemò. Le braccia alzate, tra il pregar e il rassegnarsi, dall’abbraccio mortal dello scaltro ateniese ei provò a smarcarsi.
“Caro Temistocle, non so che dirti… tra poco abbiamo la Carneia, e il belligerare c’è proibito…”
“Leonida… sei tu il re, oppure no?”
Ghigno beffardo l’eracleo allungò.
“Eh, ma non da soli decidiamo, noi a Sparta, gioia mia, non è mica qual da voi… com’è che la chiamate poi? Ah, sì… Democrazia…”
Senz’altro porre, il re Leonida in piè si erse, e battute le mani al suo campione si diresse.
“Parità!”
I due lottatori, in titanica posa, lasciaron la presa, il lacedemone ridente ammiccò.
“Il mio re ti ha salvato, ateniese fortunato.”
Sorrise l’altro, strizzando l’occhio di rimando.
“Certo, come no? Che fortuna, eh però?”
Gli avambracci si allungarono, leali e fieri si afferrarono.
“Prima o poi ti batterò, ateniese, stanne certo.”
“Sempre a tua disposizione, mio spartiate, sii contento.”
L’Eracleo generale il suo campione abbracciò, e sulla spalla ateniese la destra sua posò.
“Quando la finirete eh, voi due di pareggiar?”

“Presto, mi auguro.”
“Hai fretta di perdere, Ermes?”
Il volto ovale cui il bel naso grande e regolare dava il tocco finale di perfezione, il giada sornione nello sguardo, la bellissima Afrodite si sistemò la ramata chioma in rossa crocchia.
Ermes la scrutò avido.
“Ti prepari a qualche incontro galante?”
“Certo, ma nulla che ti riguardi.”
Afrodite si ritrasse oltre la stanza, scomparendo alla vista.
Ermes ristette al balcone, un malefico ghigno gli distorse il volto.
“Non ancora bellezza… non ancora…”

Cesare Bartoccioni
25 febbraio 2016
Rimaneggiato in poema epico, per disfida di Clas di Sparta, il 22 aprile 2016

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