I due titani - capitolo quinto: L'esilio



Capitolo quinto
L’ESILIO

“Concentrati e colpisci, ma a terra non buttarti.”
Maris d’Atene, l’ostracizzato, con gioia e onori a Scheria alloggiato, al giovin feace pugnar insegnava, così cercando pur in ristrettezza, di sdebitarsi da tal gentilezza, con lor che fin dai bei tempi achei, colui che il fato già maledisse, accolto avean in faccia agli dei, della bell’Itaca lo scaltro Ulisse.
Con grande impegno, la fronte perlata, l’acerbo pargolo ben ascoltava, e dei consigli del fiero uomo nella sua mente facea tesoro.
“Alza la spada, che ti difenda, prima che essa avversario offenda.”
Il feace ragazzo, con lama di legno, piccolo e tondo lo scudo di peltro, come uno specchio seguiva le mosse, del gran guerriero con spalle grosse che in pentecontera era arrivato, e che già un seguito avea ritrovato, giù fin dal figlio del figlio d’Alcinoo l’ultimo uomo teneva seco, con quel suo nobil incedere quieto, caduto in disgrazia e intrapreso il viaggio, sempre mostrava destrezza e coraggio, e nella lotta assoluta maestria, sì che nel tempo d’un volo d’uccello poté goder di Feacia xenia, mentre nell’Attica terra natia i suoi compagni si davan al bello.
“Nel braccio il segreto, giovin ragazzo, e l’equilibrio sulle due gambe che dal periglio può trarti d’impaccio; sempre conserva un po’ d’energia, non spargerla tutta con allegria, che una riserva di forza d’azione, quella è che salva ogni situazione.”
Un inceder lento, con passo felpato, piede sublime in d’or sandal calzato, pelle d’oliva e capelli di rame, bianco sorriso qual spuma di mare, onde nei fianchi e sole nel grembo, su spiaggia candida ella avanzava, e i due fieri sguardi, di uomo e di bimbo, qual calamita ai suoi occhi portava. Tra quei feaci da sì poco giunta, per la beltade da esordio lodata, e qual regina l’avevan unta, come novella di lor Nausicaa.
“Vedo che il discepol già sa lottare, potevo io mai dubitare?”
“Buongiorno, oh cara compagna d’esilio, eh, io, pur devo il tempo ingannare, il pargol qui mi tien bene in forma, anche se i miei mi han messo alla gogna.”
“Non disperare, oh mio generale, la gente qui mi vuol adulare, e io coi capi ho già organizzato, la tua ripartenza è già scritta nel fato.”
“Ma non so se posso, son ostracizzato!”
La bella mano morbida e liscia, del generale la spalla striscia, e nell’occhio di giada marino Maris si specchia nel suo destino.
“A gran battaglia tu sei riservato: grandiosa pugna che mai pria fu vista, già gli achemenidi han messo in lista; tu vincerai, io ne son certa, e il mondo intero, di tale gesta, avrà il racconto ben tramandato per tutti i tempi che Zeus ha creato.”
“Ti credo, oh dolce donna gentile, come potrei di te diffidare! Tu qui l’esilio m’hai reso lieve, per te ogni gente m’ha preso bene fin dal mio primo girovagare. Io ti dovrò poi ringraziare, non so perché tu m’hai aiutato, né so chi qui a te ha mandato, e…”
“Quante domande, per troppe risposte, saper ti basti che questa è la sorte, magari tutto ha deciso l’Olimpo, che tu ritorni in campo mai vinto.”

“Tutto l’Olimpo un corno! Quella se ne va in giro tra i mortali e parla a nome suo per tutti? Chi l’ha autorizzata, eh? Che ne dice Zeus, eh? Atena! Atena! Dov’è Zeus?”
Atena lasciò cadere le mani in grembo, il tappeto di stelle che stava tessendo con la storia del grande cacciatore restò, per il momento, senza cani né lepre.
“Ermes, non fare il bambino… Non eri tu, tra l’altro, quella volta, vestito da postino persiano? Tu e quell’altro deficiente che faceva il re di Pandionide… A proposito, che ne avete fatto del re vero?”
“Eh?” Ermes, piantato sulle gambe divaricate con le mani ai fianchi, osservava dall’etereo giardino, furibondo e rosso in volto, la scena che la bella Afrodite gli stava dipanando sotto gli occhi. “Il re? Che re? Ah, quello… bah… si riavrà presto dalla botta.” Si volse quindi di scatto verso Atena. “Zeus! Dov’è Zeus?”
Atena inspirò lentamente e lentamente espirò, due, tre, quattro volte.
“Sentimi bene, Ermes. Io ho da fare, qui mi mancano ancora il toro e le pleiadi, come puoi ben vedere… E poi, sinceramente, non credo che a Zeus interessino molto i vostri affari terreni…”
“Ah, questo lascialo decidere a lui! Dov’è, t’ho chiesto! Dov’è?”
Atena guardò il messaggero divino con un dolce sguardo pieno di commiserazione.
“In questo momento si sta occupando della… fertilità degli armenti. Perché non parli con Era? Aspetta, che te la vado a chiamare.”
“Eh?” Un lampo di terrore guizzò negli occhi di Ermes, e le ali ai piedi iniziarono a battere agitate. “No, che? Mah… lascia perdere, lascia…”, poi, ricomponendosi, tornò a osservare Afrodite che, nella terra di Scheria, si lisciava il suo generale. “Tanto non può farci niente, quella. Io e Ares l’abbiamo intortato per benino, il suo campione. L’ostracismo è stato decretato. Ora non può più vincere, è eliminato…”

“Che ciò fosse vero, davvero lo spero, ma battere il voto della democrazia, per me che son milite, non credo possibile, oh compagna mia.” Maris d’Atene, il capo abbassando, si chiude in tristezza, nelle dure sue pene, dal giovin tornando per l’addestramento, annusando il vento e la dolce sua brezza.
La donna, bellissima, fulgor nel chiarore, solleva la mano, delicatissima, e ferma il soldato, il tempo e l’istante, v’è or solo il giada e la voce cantante.
“Lo senti e lo inspiri, oh gran generale, perfino il buon Eolo tu hai propizio, e questo bel soffio è solo l’inizio. È tempo, mio caro, tu devi salpare.”
Maris le braccia impotente allargò, e il sopracciglio sinistro egli alzò, qual uomo che, d’onore spogliato, alla cacciata s’è ormai rassegnato.
“La pentecontera ad Atene è tornata; il mio, qui, fu solo un viaggio d’andata, non ho neanche un remo, né vela né legno, nolendo o volendo, ormai questo è il mio regno.
“Tu mi sottovaluti, oh gran combattente, la storia degli uomini è sì ricorrente, che come ad Ulisse un naviglio si diede, a te l’ha fornito d’Alcinoo l’erede. Tu parti domani, di prima mattina, e riscatterai la tua condizione con sol pochi giorni di navigazione; sarà quindi ai piedi del Monte Parnaso, che ti verrà reso l’onor di soldato, e se sacra Pizia a te assolverà, nessun di tornar impedirti potrà.”

“Maledetta! Maledetta! Mille volte maledetta!” Ermes aveva ormai perso irrimediabilmente ogni contegno, pestava i piedi alati sul lindo prato del giardino d’olimpo, accompagnando la rabbiosa camminata picchiando il suolo con irosi colpi del caduceo. “Ne sa una più di Ade! Ah… dannata! Se l’oracolo lo lascia tornare in Attica, tutto il lavoro fatto da me e Ares se ne va a putt…”
“Ti prego, Ermes!” La voce squillante di Atena zittì l’alato forsennato, all’istante. “La tua frequentazione con Ares nuoce gravemente alla pudicizia del tuo linguaggio!”
“Ah! Pudicizia, sì, proprio! Proprio quello che vedo laggiù! Fedifraga!”
“Eh, non esageriamo, su… In fondo, non avete cominciato tu e Ares a scender tra gli umani per scompaginar la posta?” Atena aveva ripreso a filare, e i cani e la lepre avevano già ripreso forma.
“Ah sì? Noi eh? E quel colpo di vento? Non dirmi che anche tu pensi sia stato casuale, eh? Lei ha cominciato, lei con quel vecchiaccio di Eolo che le sbava sempre intorno!”
“Andiamo, su, Ermes. Che racconti? La storia dell’uovo e della gallina? Ti facevo più un gallo, semmai, non farmi ricredere. Ricomponiti un poco. In fondo sei un dio, no? E poi di che hai paura? Non eri convinto della superiorità dello spartiate? Sai, far eliminare il suo avversario non ti faceva, in realtà, onore…” La dea della tattica e della sapienza, gli occhi intenti sul telaio, allargò le labbra in un sogghigno divertito.
Ermes ristette pensoso un momento, smise di camminare, smise di battere il terreno col suo bastone d’araldo. Osservò i due serpenti ivi attorcigliati, allegoria dell’equilibrio tra il bene e il male, osservò le due ali che li sormontavano, emblema del primato dell’intelligenza dominante sulla prosaica materia tramite la conoscenza. Si passò la mano destra sotto il mento, pensò alla tartaruga da cui aveva tratto la lira, pensò al gallo al cui canto gli era associato il suo mestiere di messaggero nonché, all’occorrenza, di psicopompo, e, dopo aver pensato ben benino, si sentì… pienamente e completamente… un asino. Sollevò le palpebre e spinse in alto le pupille, come a sincerarsi che le ali sul suo petaso non si fossero tramutate in lunghe orecchie villose; quindi, apparentemente rinfrancato dalla constatazione che nulla nel suo aspetto esteriore era cangiato, si appoggiò cupo al caduceo fissando Maris d’Atene che, ricevuto il bastimento da cinquantadue remi dai troppo gentili feaci, si apprestava a salpare alla volta di Delfi.
“Su…” rigirò Atena il coltello nella piaga, “vatti a fare una strimpellata di cetra, e non pensarci più…”
Ermes si raddrizzò, e batté il bastone tre volte in terra, come se si stesse annunciando a qualche destinatario delle sue missive… Come quella che aveva recapitato a Temistocle e che gli aveva scritto Apollo, il quale era stato un tempo ammaliato dalla sua cetra, tanto da barattarla con il bestiame che Ermes già si era premunito di sottrargli, e che da allora, di quell’omerico ladro ai cancelli, era divenuto intimo complice.
“Hai ragione, cara sorellina… hai proprio ragione…” un ghigno diabolico si stagliò in volto al polùtropos, “ vado… a suonare.”

Cesare Bartoccioni
16 maggio 2016

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