IL BIANCO E IL NERO
racconto
di Cesare e Perla Bartoccioni
Il vento
batteva a raffiche impietose sulla facciata della piccola casetta alla
periferia della cinerea cittadina affacciata sull’oceano, in quell’umido e
gelido febbraio che sembrava voler prolungare il grigio e triste inverno che
ben si era adagiato sui caratteri bigi smorti e depressi dei pochi abitanti di
quello sputo di mondo.
Le pareti di
pietra arenaria riflettevano il suono degli spruzzi salati lungo il sentiero di
terra e ghiaia che, dopo appena due ore dall’inizio della tempesta, era già
ridotto a invalicabile pantano, a bloccare i passi e i movimenti nel chiuso
delle cupe stanze impregnate di muffa e di vecchiume.
Al tavolo
della cucina, di fronte a due tazze di smunta e ingiallita porcellana piene a
metà di caffè lungo e allungato, madre e figlia si attardavano nella mattinata,
su scricchiolanti sedie di scuro e tarlato rovere. Nel lavello, i piatti della
cena consumata la sera del giorno prima si abbinavano nelle loro incrostazioni
di grasso di pesce a quelli del pranzo e della colazione insieme a quelli della
cena e del pranzo del giorno precedente. L’aria della stanza pesava dei
riflussi notturni fermentati tra le imposte sbarrate e i grevi respiri e i
resti dei pasti e la polvere ammassata negli angoli bui e distesa sulle assi
annerite dal tempo e punteggiate dagli escrementi di innumerevoli generazioni
di topi.
“Non si è
ancora alzato?” La voce inesorabilmente nasale della donna più anziana
gorgheggiò nel rumoroso sorso della bronzea bevanda ormai raffreddata. Un ampio
grembiule di panno viola consunto cercava di contenere senza successo le
ridondanti forme sformate di un corpo sciatto da anni trascurato. Sul collo
taurino era adagiata una untuosa crocchia che si allungava dalla base della
nuca, la cui informe chioma biondo cenere dalla quale spuntavano qua e là
voluminosi grumi di forfora cercava, con sempre minor esito nel correr via
degli anni, di riaccoppiarsi ai celesti occhi appannati e inespressivi, che ora
rimiravano umidi e tristi i due ritratti appoggiati sulla trave del caminetto:
quello austero e solenne di William Miller, e quello della buona, buonissima
anima di suo marito, da tempo defunto, a soli pochi anni dal matrimonio, il
quale aveva avuto la sfrontatezza di lasciarla sola, con una figlia piccola e
una casa sul mare da mantenere, fino all’arrivo di quello strano essere che
sarebbe poi diventato suo genero. Gli occhi del de cuius, chiari e ridenti, ben
si accoppiavano al sarcastico sorriso che un fotografo capitato lì per caso
oltre trentacinque anni prima aveva immortalato a futura memoria della vedova,
la quale, ogni volta che vi posava lo sguardo, non poteva evitare di pensare
che forse il suo bravo ex marito non era stato poi così infelice di lasciare il
promontorio, la casa vetusta, e gli affetti familiari. Con un subitaneo cenno
del capo, la vecchia si scrollò tale scomoda riflessione di dosso e continuò,
con la stessa monotona voce nasale, a riversare bile e risentimento sul marito
della figlia il quale non si era mai guadagnato la sua piena approvazione. “Qui
si accumulano i piatti e la polvere, e quello che fa? Niente!”
La giovane,
bionda platinata di recente tinta, immerse nel caffè l’ennesima zolletta di
zucchero giallognola e avvizzita.
“Eh,
infatti. E poi queste notti è pure tornato dalla pesca sempre all’una, due ore
prima del solito. Eh… se t’avessi dato retta, quella volta…”
“Già. Non c’è
che dire. Un bel vagabondo, ti sei presa… Almeno il mio, dopo l’infanzia e l’adolescenza
ben trascorse in miniera, era riuscito a comprarmi questa villetta…”
La porta
della camera sul retro, dove il ragazzo dormiva solo per non disturbare il
sonno della giovane moglie nei suoi rientri notturni da quello che la gentil
consorte soleva apostrofare come ‘quella perdita di tempo sul mare’, si aprì in
quel mentre.
Lentamente,
seguendo lo scricchiolio di arrugginiti cardini mai oliati, una figura fece
capolino nella cucina, e come al rallentatore il corpo del giovane entrò nella
sala, mostrandosi per completo nella sua intera nudità.
La tazza
della vecchia le cadde dalle mani, carambolando sul tavolo, anch’esso di rovere
e anch’esso tarlato, per sfracellarsi in mille pezzi al suolo, spedendo spruzzi
di caffè freddo per tutto il piancito. Il grido strozzato che uscì dalla gola
della suocera: “L’orrore!” fu accompagnato da una smorfia di disgusto che le
stravolse ulteriormente il volto, già stravolto naturalmente di suo.
La figlia si
portò le mani a coprirsi la bocca, sgranando gli occhi beige sfumati di grigio,
incapace di emettere alcun suono. Poi, trattenendo il respiro, indicò il corpo
del marito allungando rigidamente il braccio con l’indice destro tremolante,
come un’accusa. Finalmente riuscì ad articolare due parole.
“È… nero!”
“Nero!”
Rincarò la madre! “Nero! È nero!” Con il tono di chi avrebbe inteso dire: ‘l’ho
sempre saputo’.
La figlia
saltò in piedi, e iniziò a correre a destra e a manca, fino a trovare l’uscio,
spingerlo con forza e uscire nella pioggia. La madre seguì subito dopo,
richiudendosi il portone bugnato d’ottone alle spalle.
Sotto l’acqua
martellante, incuranti dei freddi spruzzi, le due tennero consiglio.
“Mamma!
Mamma! Ieri era bianco, ti giuro!!!!” La figlia era fuori di sé, roteava gli
occhi come impazzita.
“Tranquilla,
figlia mia, tranquilla. Ho sempre saputo che non era tanto legittimo, quello
lì.” La madre abbracciò la giovane, cercando di rincuorarla con delle dolci
pacche sulla schiena. Poi s’irrigidì. Aveva preso una decisione.
“Ora ti
accompagno dalla zia. Te ne starai lì fino a che non avrò appurato la
questione.”
“E tu… e tu…
mamma… che farai?”
“Andrò a
consulto… dal pastore!”
La figlia fu
così condotta, a spinta ancorché dolcemente, giù per la strada ormai piena di
fango che conduceva al centro del villaggio, fino alla casetta della zia,
sorella della madre, in tutto e per tutto uguale alla villetta sul promontorio
che avevano appena abbandonato, solo leggermente più annerita dalle antiche ricadute piovose cariche della polvere della
vecchia miniera a valle ormai in disuso, il cui filone se n’era da anni andato,
e con esso la gran parte della popolazione originaria. Capo Merluzzo, dai
cinquemila abitanti degli anni d’oro, anzi di carbone, era ora ridotta a una
manciata di casette sparse e sperse, per un totale di trecento abitanti intenti
a passare il tempo tra la pesca e le chiacchiere di paese.
La casa
della zia stava a sole poche decine di metri dalla chiesa avventista, edificio
in legno di recente costruzione, al cui pastore appena giunto dal capoluogo si
era dovuta la conversione di tutta la comunità dopo l’esaurimento delle vene
carbonifere. La madre, con la sua pesante andatura da orso, appena consegnata
la figlia alla sorella, si precipitò dal curatore di anime e menti, che all’occorrenza
svolgeva anche la funzione di chirurgo e cavadenti, essendo l’unico barbiere
del luogo passato a miglior vita un paio d’anni prima.
Accolta con
tutti gli onori in qualità di prima fervente attivista del nuovo corso
religioso del paese e preziosa aiutante del pastore fin dal suo arrivo, la
vecchia si accomodò nel lindo salotto rivestito d’abete, dove il quadro di William
Miller, copia precisa di quello abbinato al ritratto del defunto marito,
donatole in segno di riconoscimento e ringraziamento al tempo dell’inaugurazione
del nuovo edificio religioso, faceva bella mostra di sé sopra un lungo comò di
betulla sul quale pasticcini ripieni di crema erano ordinatamente impilati e
ben spolverati di zucchero a velo, accanto a un samovar fumante. Il ministro,
giovane biondo etereo non ancora trentenne, invitò la donna a prendere posto su
una soffice sedia di mogano imbottita di velluto verdino.
Il pastore
le porse una tazza di tè fumante, la cui candida porcellana era elegantemente
dipinta con azzurri motivi floreali.
“Zucchero?”
La voce del giovane era ancora immatura, priva di qualsiasi sentore di
virilità.
“No, grazie,
caro. Sono a dieta.”
Il giovane
tornò al comò, prese il vassoio dei pasticcini e ne offrì alla donna, la quale
ne prese due, affiancandoli sul piatto di porcellana dello stesso servizio
delle tazze, che il ragazzo aveva già approntato sul tavolino al centro della
stanza, quello compagno invece delle sedie.
La donna trangugiò
i pasticcini uno dietro l’altro, rapidamente, come un criminale che, avendo
appena compiuto una strage, si affretti a far scomparire il coltello
insanguinato. Poi si rilassò appoggiandosi allo schienale e iniziò a
sorseggiare il tè.
“Oh, che
vergogna, caro. Che vergogna!”
La donna
ciondolò la testa sconsolata, coprendosi gli occhi con la mano sinistra,
sollevando nel frattempo la destra per assaporare di nuovo la calda bevanda.
“Mi dica, mi
dica tutto.” Il ragazzo si allungò sulla sedia, poggiando i gomiti sulle
ginocchia e intrecciando tra loro le dita delle mani.
La donna
inspirò ed espirò a lungo, come se dovesse ancora decidersi a parlare. Poi,
emettendo un gemito di compunto, iniziò a raccontare al pastore l’apparizione
di poco prima.
“Capisce? È nero!”
Il pastore,
che durante l’esposizione dell’ingresso nella cucina del nudo corpo del genero
della sua ospite, non aveva potuto trattenere un flebile tremito alle membra,
spalancò ora la bocca, con gli occhi lucidi.
“Nero? Ma…
nero… come… dove?”
“Oh!” La
vecchia tornò a coprirsi gli occhi. “Dappertutto, padre! Dappertutto! È tutto
nero! Dalla testa ai piedi, tutto!”
Il pastore
ebbe una specie di convulsione, si rannicchiò in uno scatto su se stesso, poi,
ripreso il controllo, tornò a guardare la donna.
“Ma… come…
così, all’improvviso?”
“Sì padre,
sì! Ieri era bianco, glielo posso giurare!”
“Oh mio Dio!”
Il giovane era sconvolto nel volto.
La donna si
sporse verso di lui a sua volta, con fare cospiratorio.
“Padre… Io
credo fermamente… anzi ne sono convinta… che qui c’è di mezzo…” abbassò la voce
a un sussurro, volgendo rapidamente un’occhiata a destra e a sinistra, come a
sincerarsi che intorno a loro non vi fosse nessuno, “… il diavolo!”
Il pastore
si erse sulla seggiola, irrigidendosi sullo schienale.
“No!”
“Sì!”
La donna si
risistemò sulla sedia, riprendendo un tono più naturale, anche se sempre nasale,
cadenzando le pause.
“Ci pensi
bene, padre… È l’unico che non si è mai convertito… che è rimasto… papista!”
Il pastore
accennava in senso affermativo a ogni pausa della donna, che continuò.
“Lavora
tutti i giorni, lui dice per mantenerci, ma è chiaramente una scusa. Nessun timorato
di Dio lavora tutti i giorni! Pure il sabato! Lui dice che lavora anche la
domenica, quindi perché non dovrebbe il sabato… capisce, padre? È un figlio del
demonio… Anzi! È il demonio! E ora che è diventato nero… Ne è la prova! Le tenebre
lo hanno finalmente avvolto! E lo scandalo! Padre… lo scandalo!”
La donna
iniziò a piangere, come una bambina sconsolata.
Il giovane
le si avvicinò e iniziò a batterle dolcemente le mani sulle spalle.
“No, no…
tranquilla… nessuno scandalo potrà mai toccare né lei né sua figlia. Dobbiamo agire
subito.”
“E come,
padre? Come?”
Il pastore si
alzò in piedi. Aveva preso la sua decisione.
“Convocheremo
il comitato degli anziani!”
Un lampo di
gioiosa vendetta brillò malefico negli occhi della vecchia.
Gli anziani,
data la particolare situazione abitativa del villaggio, erano stati nominati
direttamente dal giovane ministro al tempo del suo arrivo con l’aiuto della
vecchia.
Di lì a
poco, sotto la pioggia ancora battente, i cinque anziani della comunità: l’avvocato
che fungeva anche da giudice; la sarta che fungeva anche da maestra, ormai in pensione
dal lavoro di sarta per la diminuzione della vista e da quello di maestra per la
diminuzione dei bambini; il pompiere che fungeva anche da poliziotto e vigile
urbano; l’allevatore di vacche che fungeva, ovviamente, anche da lattaio; e il
panettiere, che invece faceva solo il panettiere, e che era l’uomo più ricco
del paese; insomma, i cinque anziani, accompagnati dalla vecchia che nel
frattempo aveva recuperato la figlia a casa della zia, dalla stessa zia, quasi
gemella della vecchia se non per la capigliatura color nocciola spento, e dal
pastore, tutti si diressero, incuranti della tempesta che ormai, comunque,
stava ritornando al mare, verso il promontorio, verso la casa sull’oceano,
verso… il demonio!
A pochi
passi dal portone, le cui bugne d’ottone riflettevano in modo stranamente
obliquo i raggi del sole del pomeriggio che cercavano di filtrare tra le spesse
grigie nubi piovose, il comitato cittadino si fermò, titubante.
Il pastore,
conscio del suo ruolo, crocefisso in mano, avanzò lentamente verso l’ingresso. Bussò.
Nessuna risposta. Bussò ancora. Niente. Sollevò di nuovo il braccio per bussare
una terza volta quando la porta si aprì, di scatto!
Il ministro,
tremante, si ritrasse d’un passo.
Il genero
della vecchia, in tutta la sua figura, si stagliò alto e fiero sul portone. Neri
i capelli, neri gli occhi, neri i palmi delle mani.
I membri del
comitato si scambiarono un’occhiata interrogativa. La vecchia e la figlia
rimasero a bocca aperta, sbigottite.
Il loro
genero e marito, a torso nudo e con lindi gambali da pescatore di tela cerata
indosso, non era più nero, se non per delle macchie sparse qua e là per il
busto e sul viso.
“Scusate,
gente.” La voce baritonale era calda e gentile. L’uomo mostrò i neri palmi agli
astanti. “Non ho ancora finito di ripulirmi.”
Fece per
tornare dentro, poi si soffermò sugli sguardi stupiti dei membri del comitato.
“Ah, a
proposito, branco di miscredenti…” un piacevole ghigno gli si stagliò sul
volto. “Buon carnevale.”
Cesare e
Perla Bartoccioni, 8 agosto 2016
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