Capitolo nono
IL MIMO
La lama
della scimitarra del danzatore di spade non era insanguinata soltanto degli
umori del pitone e del mangiafuoco, come l’uomo dalla mantella aveva, in un
primo momento, immaginato.
All’uscita
dalla tenda, Barakuta, con un mesto guaito, piegò sulla sinistra e raggiunse
rapido una forma scura, a terra, poco discosta dall’ingresso, il cui corpo
immobile e supino apriva al buio cielo il petto squarciato da un taglio netto e
profondo.
Gli occhi
cerulei erano spalancati, ma privi di vita. I capelli color paglia erano
scompigliati, e il fez color corniolo rotolato poco distante aveva lasciata
scoperta la chierica sul capo.
L’odalisca
si chinò sul suo suonatore di sitar, ormai trapassato.
“Addio,
Gabriel. Ora le tue note paradisiache suoneranno in cielo.”
Con un dolce
movimento delle dita, quindi, chiuse le palpebre al suo musico.
L’uomo in
tweed, solo allora, si avvide di una seconda forma, a un paio di iarde dal
suonatore, anch’essa a terra, anch’essa col petto squarciato, anch’essa senza
vita. L’uomo restò in piedi, fissando il giovane volto, ora cereo, della donna
serpente.
“Beh… anche
tu sei libera, ora.”
Lontane
urla, distanti, ancora fievoli nelle voci appena risvegliate, acuirono i sensi
dell’uomo. Diverse persone si stavano avvicinando.
“Te l’ho
detto che era stato bello, ma rumoroso.” L’odalisca si era rialzata dalla salma
di Gabriel. Lo sguardo era d’un verde algido e deciso. “Seguimi.”
“Dove?”
Ma la
ragazza, col suo bravo Barakuta, era già andata. All’uomo non restò che tenerle
dietro, mentre il rumore delle voci, alle spalle, montava minaccioso verso la
tenda che avevano appena lasciato.
Camminarono
in silenzio, affiancati, nel buio, all’esterno del cerchio dei carrozzoni. L’odalisca
svoltò più volte tra i carri, fino a imboccare una specie di lungo corridoio
erboso ai cui lati si ergevano i recinti dei cammelli. Un vagone isolato,
piccolo e rovinoso, stava solitario in fondo al viale d’erba.
“Vuoi dirmi
dove stiamo andando?” L’uomo si fermò. La ragazza fece ancora due passi in
avanti, poi, resasi conto che il suo compagno d’avventura non avrebbe proseguito,
tornò da lui sospirando.
“Ascoltami
bene.” La voce era sempre calda, ma conteneva, ora, un tono d’impazienza. “Io e
mio padre ci siamo infiltrati molto tempo fa in questo circo, e grazie ai
nostri particolari ruoli abbiamo potuto tenerci lontani dalla lunga mano del sultano,
riuscendo così a penetrare diversi suoi segreti. Poi arrivi tu…” Gli occhi,
ora, erano apertamente accusatori. “Spari, ammazzi, fracassi… ti lasci una scia
di sangue, letteralmente, dietro!” L’uomo fece per replicare, ma l’odalisca era
già lanciata. “Cosa pensi? Ora, quando ‘Phil’ troverà la sua ultima conquista
affettata nella tenda, pensi che potrò continuare ad agire nell’ombra,
indisturbata? No, caro mio. Odalisca o non odalisca, il mio tempo qui è finito.
E lo stesso vale per mio padre. Non possiamo più star qui. Dobbiamo andarcene,
e magari cercare di bloccare il maligno dall’esterno.”
“Il maligno?”
L’uomo socchiuse le palpebre.
“Te lo stavo
dicendo, uomo dal grilletto facile! Te lo stavo dicendo prima che venissimo
interrotti. Il sultano, Philippe, se questo è il suo vero nome… Non è
semplicemente un uomo malvagio…”
L’odalisca
fece una pausa. Come a sottolineare l’importanza di ciò che stava per rivelare.
L’uomo attese, senza fiatare.
“È il male.”
L’uomo
inarcò il sopracciglio sinistro.
“Non ti
sembra di esagerare?”
La ragazza
scrollò il capo. Lo sconforto era palese nei suoi occhi abbassati.
“Ahh… che ne
vuoi sapere, tu? La scia di morte e terrore che il sultano si porta con sé ha
una traccia di decenni e decenni, si perde nella memoria; tutti quelli con cui
ho avuto la ventura di parlare… affermano che, dacché si ricordano, il Circo d’Oriente
è sempre esistito.”
“Via…” l’uomo
in tweed accennò un sarcastico sorriso “nessuno esiste per sempre…”
L’odalisca
lo fissò con uno sguardo intenso.
“Nessuno di
quelli che ti stanno vicino, questo è sicuro.”
L’uomo
lasciò scorrersi addosso la frecciata. Ripensò a Vincent, alla spia tedesca che
se ne fuggiva a cavallo, con la borsa dei documenti attaccata alla sella e la
Mauser fumante ancora in mano; ripensò alle centinaia di Thug che aveva
assassinato, senza pietà, all’interno dei loro stessi sacrileghi templi; ai commando
boeri eliminati nelle sue incursioni; ripensò alla donna cannone e alla donna
serpente. Poi guardò fisso la bella odalisca.
“Vuoi dirmi,
ora, dove stiamo andando?”
L’odalisca
gli poggiò la mano destra sulla spalla sinistra. Il dolce calore gli penetrò
fino al cuore, fino all’anima. La ragazza socchiuse gli occhi; l'uomo s'immaginò, sotto il velo, un ghigno beffardo.
“Tu sei qui
per la tua Stella, no? Bene. Ora andiamo da uno che sa dove si trova. Te lo fai
spiegare. Te la riprendi. Poi te ne vai. D’accordo?”
L’uomo
indicò il vagone fatiscente in fondo al corridoio erboso.
“E starebbe
lì dentro, quello che sa dove si trova…?”
“Vieni o no?”
I due si
incamminarono per il sentiero erboso. Prima che giungessero al carro, la porta
del vagone si aprì, lentamente. Ne uscì un omino in frac e bombetta neri. Il volto
era bianco di cipria, bianchi erano i guanti, bianca la camicia. I pantaloni
erano d’un grigio antracite gessato. Le scarpe nere di vernice. L’omino richiuse
la porta e si volse verso i due appena arrivati. Ristette immobile come una
statua.
“Un… mimo?” Una
indefinibile punta di dubbio permeava il tono di voce dell’uomo dal grilletto
facile.
“Sì.” L’affermazione
dell’odalisca fu chiara e convinta.
“Quindi… gli
posso chiedere…”
“No.”
L’uomo si
volse di scatto verso la ragazza. Entrambe le sopracciglia inarcate in un
piglio interrogativo.
“Non ti
sentirebbe.” L’odalisca volse all’uomo una dolce, verde, calda occhiata. “È
sordo.”
L’uomo dalla
mantella spalancò la bocca.
“Ma allora
come può dirmi…”
“Non può. È anche
muto.”
Prima che l’uomo,
dopo aver inspirato una lunga boccata d’aria, esasperato, potesse replicare, l’odalisca
continuò.
“Ma è un
mimo...”
L’uomo capì.
All’istante.
Nessuno,
tantomeno quel rozzo e fantomatico sultano che rispondeva al nome vero o
presunto di Philippe, in arte ‘Phil’, si sarebbe mai preoccupato dei segreti
che un sordomuto potesse conoscere, e meno ancora delle sue improbabili
rivelazioni. Anzi, nella mentalità di uno come Philippe, quel mimo era
probabilmente percepito come un semplice oggetto, né più né meno. E la catapecchia
in rovina dove viveva, in fondo ai recinti dei cammelli, di tale considerazione
era, in realtà, prova tangibile.
L’uomo tornò
a guardare l’odalisca.
“Come fai a
sapere che lui lo sa?”
“Lui sa
molte cose. È da lui che ho saputo… certe pratiche… in cui il sultano indugia…
con le nuove leve del circo…” L’odalisca si rabbuiò nel volto. Poi fissò negli
occhi l’uomo dalla mantella di tweed. “Beh, non ti resta che provare. Hai qualcosa
da perdere?”
L’uomo non
rispose. Volse gli occhi al mimo, e fece
due passi nella sua direzione.
Si raccolse
in concentrazione alcuni secondi. Poi sollevò le mani all’altezza del petto, e
nell’aria, con i palmi, disegnò un grosso cuore. Quindi, stendendo a più riprese
e rapidamente le dita, riprodusse dei bagliori, dei raggi. Infine riportò le
mani lungo i fianchi, in attesa.
Il mimo
sorrise e inclinò il capo verso destra e leggermente in avanti, come in cenno
affermativo.
Con la
sinistra, lentamente, in un movimento talmente fluido da sembrare immobile, si
tolse la bombetta, tenendola davanti a sé con l’apertura verso l’alto. Nel frattempo,
sollevò il braccio destro, strinse le dita a pugno e infilò la mano nel
cappello. Poi si rimise il cappello in testa, ancora col pugno della mano
destra dentro. Tornò quindi alla sua postura iniziale di immobilità.
L’uomo dalla
mantella, sopracciglio sinistro inarcato e leggero sorriso di trionfo stampato
in volto, si girò verso l’odalisca.
“Beh… non
penso proprio che potrò andarmene, ora.”
L’odalisca
inspirò ed espirò, rassegnata.
“Già. Bisogna
andare fino in fondo. E bisogna farlo stanotte.”
Cesare
Bartoccioni, 3 novembre 2016
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