Capitolo ottavo
IL DANZATORE DI SPADE
IL DANZATORE DI SPADE
Rilassato
nella posizione del fiore di loto, l’uomo dalla mantella di tweed si lasciò
cullare dalla dolce e calda voce dell’odalisca. Tornò con la mente ai tempi
andati, alla sua infanzia nel Punjab, alla lotta quotidiana per la
sopravvivenza, all’odore del cardamomo, ai mille colori dei fiori del Kashmir, alle
immense distese di frumento, alle prime missioni per il Raj.
Chiuse gli
occhi, l’uomo, mentre il racconto iniziava a svolgere la sua magia.
“Eravamo
felici, un tempo.” La ragazza fece una breve pausa. La voce scorreva fluida e
pacata. “Io, mio padre, mia madre e mio fratello. Amritsar, quella mattina,
aveva il dolce pungente profumo della fioritura. I boccioli di senape, nel loro
giallo bagliore, annunciavano l’inizio della primavera. Mio padre, che tu hai
appena conosciuto, quella mattina era andato allo Hari Mandir… quello che i
tuoi amici coloniali chiamano il Tempio d’Oro… oro… non sembrano poter pensare
ad altro…” La respirazione dell’odalisca si fece pesante. “Quando tornò… era
ormai troppo tardi. Ricordo che io e mio fratello stavamo giocando nel cortile
della piccola casa dove abitavamo, in riva a uno dei canali del Ravi, e nostra
madre ci stava osservando ridente. L’assalto fu improvviso. Non mi resi conto
di nulla. Mi risvegliai tra le braccia di mio padre, tossendo. Nostra madre
giaceva senza vita poco distante. Di mio fratello nessuna traccia. Ricordo mio
padre chinarsi sulla mamma, accarezzarla, e scioglierle dal collo un nero rumal…
il fazzoletto dei Thug.”
L’uomo dalla
mantella, gli occhi sempre chiusi, fece un cenno affermativo col capo, in segno
di comprensione. Le scorrerie degli ultimi adepti della famigerata setta di
assassini, dopo le batoste subite da parte di Sleeman, si erano fatte nel tempo
sempre più audaci e spavalde, nei rapimenti di giovani ragazzini da iniziare ai
loro rituali, nell’ormai velleitario, ma sempre preoccupante, tentativo di
ricostituzione del loro potere. Li conosceva bene, i Thug. Erano stati l’oggetto
delle sue prime missioni, quando, insieme a Vincent, penetrava i loro templi
segreti e, di fronte al severo sguardo della dea Kalì, li sacrificava, senza
pietà.
“Io sono
ancora viva” riprese la ragazza, “perché, evidentemente, fui creduta morta. Mio
padre non pianse, né covò alcun rancore. Mio padre è immune alle tentazioni dei
cinque ladri. Decise di reagire nell’unico modo per lui possibile, facendo
conoscere in ogni luogo che potesse raggiungere i tre pilastri della saggezza. Dal
canto mio, con la danza e la musica, che hai visto e sentito poco fa, aiuto mio
padre a far volgere gli animi verso la parte buona della natura umana.”
L’uomo ripensò
al senso di pace e di completezza che aveva sentito, nitido, al suo ingresso
nella tenda.
“E ci riesci
benissimo.” Si scosse quindi, l’uomo, dall’estasi del racconto. Aprì gli occhi
e li fissò sulla verde luce della ragazza. Era il momento di fare qualche
domanda. “Perché siete qui?”
L’odalisca
lasciò passare un lunghissimo istante. Fissò l’uomo con uno sguardo intenso.
“Perché i
cinque ladri… sono qui.”
L’uomo non
seppe trattenere un sorriso ironico.
“Beh… i cinque
ladri… sono ovunque, no?”
La ragazza
raccolse le mani in grembo.
“Certo. Ma qui…
in questo circo… con un potere finora sconosciuto… sono materializzati e
personificati in un unico, pericolosissimo…”
“Ah! Eccoti
qui!”
L’uomo si
volse di scatto verso l’ingresso della tenda, da cui la voce, acuta e stridula,
aveva interrotto la rivelazione dell’odalisca.
Prima ancora
di vederla, aveva già riconosciuto, dal fastidioso timbro petulante, la sorgente
di quell’inopportuna seccatura.
La biondina
che si era fatta segare in due stava, trionfante, sull’apertura del padiglione. Non aveva nulla
in mano, stavolta, niente manuali di diritto canonico… ma aveva un grosso
omaccione al fianco, vestito di nero, nera barba e nero turbante, che con agili
mani stava facendo mulinare una enorme scimitarra, la cui lama ricurva era
macchiata qua e là di rivoli di sangue fresco.
“Eh… l’avevo
detto, io, a Phil… non fidarti… quello è uno che ne sa parecchi, di trucchi…
Eh, ma va, mi dice lui, io per stanotte ne ho abbastanza, ritiriamoci nel mio
carro, dice lui, e quel bamboccetto di Renatin che annuiva, annuiva, sempre a
annuire, sta… Allora io: ma dai, fammi almeno andare a controllare, su, poi, se
tutto va bene, vengo direttamente io al tuo carro, su, fammi andare… Allora il
buon Phil mi dice, va bene, se insisti, ma non andare da sola, prenditi il
danzatore di spade, mi dice… Eh, ho fatto bene! Sapessi che schifo che hai
lasciato in cucina! Mamma mia, quel serpentone!!! Il mio nuovo amico, qui,
però, ah, caro mio, l’ha tagliuzzato per benino, eh? Poi però, purtroppo, s’è
accorto che insieme al serpente aveva tagliuzzato anche qualcun altro… beh,
pazienza, no? Si troverà pur qualche altro mangiafuoco, no?”
Nel mentre
che la biondina parlava senza aver apparentemente alcuna intenzione di
fermarsi, l’uomo dalla mantella estrasse rapido la Webley e la puntò al petto
del danzatore di spade. Vide solo una scintilla di metallo, mentre il revolver
gli volava verso l’alto. Lo spadaccino, come un lampo, gli era già piombato
addosso, e l’aveva già disarmato. Non era una mezza calzetta, quello. Quello
non barava.
Nella visione
rallentata dalla certezza di trovarsi nell’ultimo istante di vita, l’uomo in
tweed vide l’uomo nero roteare su se stesso, la scimitarra impugnata a due mani
pronta a terminare il moto circolare esattamente tra la sua testa e le sue
spalle. All’udito, ovattato, giunse un lontano richiamo, che ricondusse al
timbro caldo e dolce dell’odalisca: “B-a-r-a-k-u-t-a-!!!” Una sagoma slanciata,
allungata, del color di rame e mogano, tagliò l’area interna della tenda,
terminando la sua corsa sulla gamba destra del danzatore di spade. Questi lanciò
un grido di dolore, mentre le fauci del cane da tasso ne attanagliavano le
carni. Con il baricentro spostato dalla fulminea intercettazione canina, l’uomo
in nero cercò di riprendere l’equilibrio volgendosi a destra e portando la
gamba sinistra in avanti. Non riuscì però a interrompere la rotazione della
scimitarra che, con la traiettoria ormai abbassata, finì precisa alla vita
della biondina, la quale nel frattempo si era avvicinata, forse per godersi
meglio la scena, forse per smania di protagonismo, e che fu attraversata dalla
lama come se fosse stata di burro. Già in due segata, fu in due tagliata. Il suo
corpo rimase un attimo unito in verticale, poi si disfece in due parti che ricaddero
al suolo ripiegandosi agli arti, come una bambola di pezza.
L’uomo in
nero, riacquistata una certa postura, sollevò ora la scimitarra in alto sopra la testa. Il
suo obiettivo era chiaro: Barakuta.
Lo sparo
risuonò sordo all’interno della tenda. Il foro che si disegnò in mezzo alla
fronte del barbuto esplose dalla nuca, dalla quale volarono via il turbante,
una lunga ciocca di capelli neri attaccati a un pezzo di calotta cranica, e la
vita del danzatore di spade.
Un centro
perfetto.
L’uomo dalla
mantella si volse al tappeto di arazzi. L’odalisca, sguardo duro e deciso,
impugnava a due mani la Webley ancora fumante, che evidentemente era riuscita a
recuperare giusto in tempo.
Barakuta,
mollato l’osso, rimenò allegramente scodinzolando dalla sua padrona, che lo
accolse con una carezza e con il dolce giada degli occhi.
L’uomo tornò
con lo sguardo ai due pezzi della biondina, al corpo non meno informe del
danzatore di spade che le si era riversato sopra. Poi guardò di nuovo l’odalisca.
“Bel colpo.”
“Sì, bello e
rumoroso.” La ragazza si alzò in piedi. “È ora di darsi una mossa.”
Cesare
Bartoccioni, 18 settembre 2016
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