Il prestigiatore - capitolo secondo: Il baro



Capitolo secondo
IL BARO

In visibilio, tutti in piedi, scroscianti applausi accompagnarono l’inchino finale del grande prestigiatore Renatin Le Chemin, ora piegato a gradi centotrentacinque, entrambe le ginocchia genuflesse.
Il sedicente sultano, dal canto suo, gesticolava in modo goffo ma efficace indicando il coniglio nel frattempo uscito dalla cassa e ora saltellante per tutta la pista, bianca e magnifica apparizione che, concludendo il tanto atteso spettacolo, aveva con gran successo occupato la scena.
Tutti gli astanti, terminata l’esibizione, chiusa la serata, iniziarono a ritirarsi in buon ordine dalla cavea, parlando a coppie e a crocchi, a voce alta ed eccitata, del grande mago, dell’uomo col turbante, e del coniglio.
L’uomo con la mantella di tweed, invece, non aveva distolto lo sguardo dal cassone, che, dietro al saltellio turbinante del Geant Blanc, era stato nella penombra e di soppiatto ritratto da figure ammantate di nero oltre il fondo del tendone. Rigirandosi il sigaro in bocca, l’uomo attese nel buio dell’alta tribuna che gli spalti si svuotassero e che il coniglio fosse ingabbiato da uno scimmiesco inserviente in rossa livrea, quindi, facendo un mezzo giro dalla parte opposta all’uscita, s’infilò con circospezione sotto il lembo della piccola apertura in fondo allo chapiteau, donde mago e sultano erano poc’anzi spariti.
Nel buio della sera, nell’area concessa dalle autorità cittadine al Circo d’Oriente per le rappresentazioni, sulla paglia marcia mescolata al terriccio polveroso punteggiato di sterco di cammello, si stendevano di fronte agli occhi dell’uomo con la mantella, in un ordinato disordine, carri vagoni e gabbie di animali feroci, e sull’estrema destra una baracca dal cui nero comignolo usciva denso fumo e nauseabondo fetore, il che la identificava, come un’etichetta, cucina da campo di quel campionario di umane genti dalle misteriose origini e dalle incognite abitudini. L’uomo si chiese, en passant, se, dato l’olezzo delle pietanze che ivi si preparavano, tra tali genti fosse ancora in uso l’antica abitudine beduina dell’ingestione di fresche feci di gibbuti ungulati per curarsi la digestione. Si rispose mentalmente che era certamente così e, intravisti un cilindro e un turbante entrare in un vagone bordeaux oltre la gabbia dei leoni, iniziò a camminare con disinvoltura verso quel rosso carro, passando nel buio inosservato tra i relitti umani in vermiglia divisa intenti tra paglia e sterco alle loro occupazioni di fatica.
Giunto al vagone, lo aggirò, trovandosi al di fuori dello spazio aperto del cerchio dei carri e, protetto dall’oscurità, si avvicinò chinato al finestrino, socchiuso nella calura del luglio serale, fino a percepire le battute che all’interno pascià e prestigiatore si stavano scambiando.
“Mah… non lo so, Philippe, forse dovremmo smetterla. Negli ultimi tempi abbiamo esagerato.”
Rigirandosi il sigaro tra le labbra, in ascolto, l’uomo riconobbe la voce d’oltretomba del mago.
“Smetterla? Smetterla, dici? Ma sai quanto è stato l’incasso della serata, eh? Scherzi? È una miniera d’oro, questa, e tu vuoi rinunciarci? Non se ne parla nemmeno.”
La roca bassa asfittica voce del sultano aveva un tono di perentorio comando, di uno che non ammette discussione alcuna.
“No… non dico di smettere di fare gli spettacoli… ma… tutte quelle ragazze…”
“Basta così. Lo sai che mi servono. Senza di loro non ci sarei io, e senza di me non ci saresti tu!”
“Sì, certo… ma… ultimamente abbiamo un po’… esagerato, forse, no? Voglio dire… se dovessero venire a…”
“Ma chi? Chi? Chi dovrebbe venire, eh? Hai visto, no, quei coglioni, lì fuori… Un balletto di coniglio e via, tutto cancellato. Nessuno si ricorda più delle casse, tantomeno delle ragazze. Ha sempre funzionato, e sempre funzionerà. Il pubblico è massa, e la massa la freghi sempre.”
Seguì un lungo silenzio, all’interno del carro. All’esterno, l’uomo si lisciò il tweed della mantella con il palmo della mano sinistra, prese il sigaro, tuttora spento, tra pollice indice e medio della destra, e si erse verso il finestrino, ruotando il busto e appoggiando le spalle alla parete di legno del vagone.
Trasalì.
Un uomo vecchio e rugoso, il volto dagli zigomi e dal mento tondeggianti, capelli bianco cenere su cui era calzata una lercia e consunta tuba di panno liso e sfilacciato, gli ghignava coi gialli denti in faccia. Il vecchio sollevò la mano destra, e l’uomo col tweed si sentì una fredda lama alla gola.
“E tu chi saresti, eh?”
La voce era acuta, quasi da bambino, voce roca e stridula, voce che non attese risposta.
“Ah, beh… lo sapremo subito. Su, entra!” E senza tanti complimenti, coltello e tuba spinsero l’uomo con il sigaro ancora in mano su per il predellino del carro. La porta fu aperta senza bussare.
“Barone! Che modi sono?” Il sultano esplose quasi in un urlo.
“Aspetta, aspetta ad arrabbiarti, capo. Questo qui!” Rispose acuto, ma sommesso, il vecchio, strattonando la mantella di tweed. “Vi stava origliando!”
L’uomo col sigaro fu messo a forza su uno sgabello, a poca distanza dal tavolaccio di abete grezzo e dalle sgangherate sedie di noce, residuati di chissà quali antiche epoche, dove pascià e mago ancora sedevano.
Il pascià si sporse a mezzo busto verso il nuovo venuto, fissandolo negli occhi.
“E perché ci stavi origliando, di grazia?”
“Non stavo origliando nessuno.” L’uomo col tweed parlò con tono calmo e tranquillo. “Stavo solo cercando mia moglie.”
“Oh! Eh? La moglie! La moglie?” Il prestigiatore saltò sulla sedia, con un gesto di sorpresa subito redarguito da un cenno della mano del sultano.
“Ci dev’essere un errore. Qui non ci sono mogli.” Calmo e tranquillo era anche il tono dell’uomo dal turbante.
“Beh..,” riprese l’uomo del tweed, “la ragazza che è entrata nella cassa. Non l’ho più vista, e anche se mi fa dannare non poco ogni santo giorno, vorrei comunque riportarmela a casa…”
Il sultano Philippe strizzò le palpebre in un gesto divertito, e al contempo sollevò i palmi delle due mani verso quello strano tipo con mantella di tweed e sigaro spento in mano.
“Ah… certo! La signorina che è stata tanto gentile da assisterci nel nostro giochetto.” Si piegò quindi ancora verso lo sgabello, abbassando la voce in tono quasi cospiratorio. “Mmmh… non ricordo però di averla vista, tra il pubblico, accanto alla signora, e io ho una buona memoria…”
“In effetti, no. Sono arrivato quando mia moglie stava già entrando nella cassa… troppo tardi. Non avrei mai acconsentito. Insomma, siamo una coppia all’antica… e… insomma… con tutto il rispetto… la moglie che diventa un’attrazione da circo non è proprio quello che… beh, mi capisce, no?”
“Ah, sì… sì… Beh, ci dispiace tanto di aver segato sua moglie in due senza il suo permesso, davvero. Vero, Renatin?”
Il mago, il volto sempre oscurato dalla tesa del cilindro sulla barba argentata, annuì con vigore. Né occhi né bocca di lui si vedevano, ma annuì, e con la sua voce cimiteriale parlò.
“Certo, certo… Non l’avremmo mai segata senza la sua benedizione, ce ne rammarichiamo molto.”
“Va bene, va bene. Ormai è fatta…” l’uomo col sigaro sforzò un sorriso, “ad ogni modo… dove si trova ora? Si è fatto tardi e vorrei recuperarla…”
Philippe il pascià si alzò, e fece cenno a Renatin di far altrettanto.
“L’andiamo subito a chiamare.”
Renatin ebbe un altro sussulto.
“Chiamare? Come chiamare? Ma come…” Il sultano lo bloccò di nuovo con un cenno perentorio della mano.
“Sì, certo, Renatin. Il signore resterà qui con il barone in attesa, e noi gli riporteremo la gentil consorte.” Quindi si diresse di nuovo all’uomo col tweed. “Vede, le signorine che ci assistono offrendosi volontarie vengono poi trattate con tutti i riguardi… da vere vedettes! Alla signora è stato assegnato un camerino dove potersi rinfrescare. Attenda qui con il barone. Saremo subito da lei.” Poi il sultano si volse verso il vecchio con la tuba sfilacciata. “A proposito, barone caro, guarda un po’ qui, tu.” E così dicendo Philippe allungò una mano su un grande foglio arrotolato che si trovava sul tavolo d’abete. Lo diede al barone, con un ghigno sardonico. Il vecchio lo prese e lo srotolò di fronte a sé.
“Beh, che c’è capo? È la locandina del prossimo spettacolo, no? L’ho appena dipinta.”
“Ecco,  appunto, leggi un po’…”
Il vecchio si schiarì la voce, divenuta tremolante, e iniziò a sillabare lo scritto.
Il grande spettacolo del Circo d’Oriente, con la partecipazione di…
“Salta, salta, barone, passa al quando…”
“Ehm… questa domenica alle ore 8… Beh, che c’è che non va?”
“Che c’è che non va? Che c’è che non va?” Il tono del sultano aumentò di due ottave. “Io ti avevo detto alle otto di sera, somaro! Chi vuoi che venga allo spettacolo alle otto di mattina? Le 20, dovevi scrivere!”
“Io… beh… mi dispiace…” Il tono remissivo del vecchio palesava l’infinito terrore che il sultano manifestamente gl’ispirava.
“Dispiace anche a me. E ora, mentre io e il grande Renatin andiamo a chiamare il dom… ehm… la dolce metà del signore… Tu ti metterai giù d’impegno a rettificare la locandina, chiaro?”
“Certo. Certo, capo, subito… ho sempre dietro le mie matite colorate.”
“Bravo.” Il sultano tornò con lo sguardo all’uomo del tweed. “Ci vorrà solo un istante.” Quindi, senz’altro aggiungere, prese il mago per il braccio e, insieme, uscirono dal vagone.
Rimasto solo, a rimirar il cosiddetto barone intento nella rettifica del manifesto, l’uomo col sigaro in mano tornò con la mente alla strana espressione diabolica apparsa nei torvi occhi del sultano al pronunciar le parole “la dolce metà del signore”, espressione enfatizzatasi precisamente sul termine “metà”. Sperò in cuor suo che il segar ragazze non fosse fuor di metafora, lo sperò davvero per la vitale e vera ragione della sua presenza in quel luogo. E poi… “il dom…” uscito di bocca al sultano prima che questi prontamente, ma tardivamente, si correggesse, faceva presagire che i due compari non intendessero affatto riportargli la sventurata biondina, quella giovinetta mai vista prima dello spettacolo ma di cui, per guadagnar tempo, s’era spacciato marito. Pensò piuttosto che fossero diretti da qualcuno che li avrebbe aiutati a far sparire uno scomodo ficcanaso… magari uno avvezzo a trattare con le belve che ringhiavano nella gabbia giusto lì accanto. Conosceva i tipi, e ne conosceva i metodi.
Bisognava darsi una mossa.
“Allora, sei un barone?”
“Eh?” Intento nel lavoro di rettifica, il vecchio rispose senza neanche sollevare lo sguardo dal manifesto.
“Ti han chiamato barone. Sei un barone davvero?”
Il vecchio ristette pensoso, come perso nel limbo tra il lavoro assegnato e le domande del curioso. Quindi, un ghigno gli si allargò in volto e, non potendo evidentemente resistere al richiamo della ribalta, gioia e maledizione al contempo della sua schiatta, abbandonò sul foglio le matite colorate e, pieno di gran boria e autocompiacimento, si rizzò sullo schienale, e sul volto, sulle mani incrociate dietro il capo, sul lento ondeggiare del busto sulla sedia, raffigurò la più completa e vacua vanagloria del suo mestiere.
“Eh, sì. È che con le carte ci so proprio fare.”
“Ah, sei un baro, quindi. Un barone nel senso di gran baro.”
Il vecchio scattò in piedi, come punto nell’orgoglio.
“Ehi! Che vorresti dire, eh?”
“Che voglio fare una partita. Una sola. E mi gioco tutto.”
Il barone, o meglio il baro, tornò lentamente a sedersi, socchiudendo gli occhi.
“Una partita, eh? E cosa ti giocheresti, sentiamo…”
“Beh… se vinco io, mi dai il permesso di accendermi il sigaro.”
“Mmmh. E se perdi?”
“Se perdo…”, l’uomo del tweed si chinò verso il tavolo, abbassando la voce in un sussurro, “se perdo… ti rivelo un segreto.”
“Segreto?” Il vecchio si lisciò il mento con pollice e indice della destra. “Che segreto?”
L’uomo col sigaro si guardò intorno circospetto.
“Una cosa che i tuoi capi non ti hanno mai detto.”
Gli occhi del baro s’illuminarono.
“E sarebbe?”
“Beh… prima la partita, no? Decidi tu il gioco.”
Un ghigno satanico apparve sul volto rugoso del vecchio dalla voce da bimbo.
“Le tre carte?”
“Perché no?”
Il vecchio si frugò nella sudicia tasca dei pantaloni di panno a righe, consunti e smagliati come la tuba che portava in capo, e ne estrasse un mazzo di carte francesi. Con abili mosse, ne tolse tre: i due re rossi e l’asso di picche.
Senza metter tempo in mezzo, cominciò a gettarle coperte sul tavolo, poi a più riprese ogni tanto le scopriva.
“Re di cuori a destra, asso al centro, re di quadri a sinistra.”
La mossa si ripeté più volte.
“Asso a destra, re di cuori a sinistra…”
Infine, con esperto movimento, stese le tre carte, coperte, accentuando il gesto sulla carta di destra.
L’uomo col tweed pensò che, ai suoi tempi, sapeva fare di meglio, molto meglio di quella mezza cartuccia.
“La carta al centro.”
Il vecchio rimase di stucco. Poi, come un automa, scoprì la carta centrale.
Asso di picche.
“Ehi! Ho vinto!” Gridò l’uomo del tweed fingendo stupore.
“Ma… come hai fatto…? Nessuno prima…”
“Posso accendermi il sigaro, ora?”
“Eh? Ah.. sì, beh, certo… Dannazione, ora non mi rivelerai più il segreto…”
“Ma sì, ma sì! Dai che mi stai simpatico.” L’uomo col tweed si passò il sigaro nella sinistra, e infilò la mano destra sotto il lembo della mantellina che gli ricadeva sul cuore. “Te lo rivelo lo stesso, il segreto.”
Il vecchio divenne il ritratto della contentezza più meschina. Aveva perso, ma avrebbe comunque riscosso il premio.
L’uomo col sigaro iniziò a estrarre la destra dalla mantella.
“Il segreto, che i tuoi capi non ti hanno mai comunicato, mio caro baro,” la mano destra uscì dal tweed, e ciò che impugnava non era una scatola di fiammiferi, “è che i prigionieri vanno sempre perquisiti.”
Il pollice della destra armò il cane della Webley Mark IV, l’indice premette il grilletto, e la palla da .455 entrò precisa nel mezzo della fronte del vecchio inebetito, uscendo dalla nuca scoperchiando la calotta cranica e portandosi dietro la poca materia grigia ivi contenuta.
Un fiotto di sangue schizzò dal foro in fronte del baro terminando, in una breve e precisa parabola, sull’orario errato del prossimo spettacolo.
“Rettifica questa, ora, barone dei miei stivali.”
La carica da 18 grani di polvere nera aveva provocato solo un sordo sparo, ma anche il minimo rumore, nel silenzio del circo a quell’ora, si sarebbe diffuso con facilità. All’udito dell’uomo col tweed giunsero subito le prime esclamazioni di disorientamento provenienti dalla distesa di paglia e sterco.
Rapido come il fulmine, l’uomo raccolse la tuba macchiata di sangue che se n’era volata in un angolo buio e sudicio del vagone, la riportò al baro senza più vita ancora seduto al suo posto, la calzò sulla parte di testa rimasta attaccata al corpo, quindi, preso l’asso di picche, lo introdusse come un’ostia nella bocca da ebete del vecchio, rimasta aperta nell’estremo stupore del trapasso e, infilata la porta, scomparve nel buio.
Strisciò basso e veloce lungo il cerchio esterno dei carri, ma si avvide immediatamente che ogni via di fuga era già bloccata. Il recinto che delimitava l’area di paglia e sterco era invalicabile, barriera di sicurezza per contenere le belve feroci da possibili evasioni. Ogni varco tra i vagoni era già presidiato dalle varie professioni circensi: lottatori, trapezisti, clown, trogloditi in livrea, ognuno con in mano un coltello, una mannaia, un bastone, un rasoio.
Al centro dello spazio interno avanzavano un turbante e un cilindro, in mezzo a loro un baffuto omaccione pelato, con una pelle di leopardo che dalla spalla destra gli scendeva in vita cinta da una catena. I polsini di cuoio e la lunga frusta non lasciavano dubbi sul suo mestiere. Era il domatore di leoni, era del circo il giustiziere.
L’uomo del tweed, sigaro spento nella sinistra e revolver fumante nella destra, si volse frenetico a manca e dritta, mentre il cerchio della morte gli si stringeva contro.
“Ehi! Qui!”
Un sussurro. Dietro di lui.
L’uomo si girò di scatto. Una immensa figura dai capelli corvini, il volto oscurato nella penombra della sera, si stagliava sull’uscio aperto dell’ultimo vagone del circo. C’era poco da fare. Si doveva fidare.
Salì sul predellino, e una mano morbida e robusta lo trasse all’interno del carro.
“Qui sarai al sicuro,” riprese il sussurro, “nessuno viene mai da me.”
“Ma… chi sei? E perché mi stai aiutando?”
“Non sto aiutando te. E in quanto a chi sono io… davvero non l’hai capito?”


Cesare Bartoccioni
19 aprile 2016

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