Il prestigiatore - capitolo sesto: Il fachiro



Capitolo sesto
IL FACHIRO

“Sicura che ci possiamo fidare?”
I due camminavano nell’ormai fitta oscurità della notte. Il cerchio interno dei carri si era svuotato di ogni attività, di ogni animosità, di ogni ricerca. Erano tutti tornati tranquilli e compiaciuti ai loro giacigli, con la certezza della loro inviolabile routine quotidiana che si sarebbe ripetuta l’indomani.
“E tu sei sicuro che il mio Boy non corra rischi, lì nello stanzino? Appena sorgerà il sole, all’alba, e lo trovano nel mezzo di quella digestione…”
“Non ci sarà alcuna alba.”
Il tono reciso dell’uomo con la mantella fece calare un incomodo silenzio tra le due figure, che scivolavano nel buio del recinto interno, con i vagoni a pochi metri sulla loro destra, nella loro traiettoria a semicerchio che, dalla cucina appena lasciatasi alle spalle, li avrebbe portati al loro obiettivo.
Dopo alcuni lunghi istanti, l’uomo dalla mantella tornò a parlare.
“Ti ho chiesto se ci possiamo fidare.”
“Sì. Di lui sì.” La donna serpente mosse il capo dall’alto verso il basso, più volte, con convinzione.
L’uomo estrasse la Webley, che aveva ripulito dall’unto delle manacce del mangiafuoco strofinandola con la cenere del lungo braciere sopra il quale le orripilanti carcasse, senza più il cuoco a badarle, erano ormai in via di carbonizzazione. “Cenere alla cenere”, aveva pensato. Aprì con attenzione il castello del revolver e sostituì solo la pallottola esplosa, tenendo il palmo destro sopra l’estrattore per non far schizzare via le altre cinque ancora cariche.
“Non ti servirà, quella.” La donna fece un cenno col mento verso l’arma.
“Non si sa mai.” L’uomo ripose la rivoltella sotto la mantella.
“Il fachiro è la personificazione stessa della pace e della serenità. Con lui le armi non hanno potere.”
“Non mi stavo riferendo al tuo amico fachiro. Non ho alcuna intenzione di fargli del male, se quello che mi hai detto è vero. Ma vorrei essere pronto per inattese… visite.” L’uomo si massaggiò la tempia sinistra, ancora dolorante per la botta ricevuta con il pesante volume.
“Certo che è vero. E non devi preoccuparti di visite inaspettate, da lui… È l’unico, qui, che il sultano teme. Lui e i suoi sgherri si tengono ben alla larga dal suo carro.”
L’uomo guardò la ragazza di sbieco. La falce di luna che si stagliava sul nero e terso cielo stellato donava un brillio sinistro alle sue iridi color castagna.
“Mmmh… e perché quel vostro sultano dovrebbe aver paura di un tipo pacifico…?”
La ragazza tornò a ciondolare il capo, con forza, in senso affermativo.
“Il sultano è un tipo superstizioso. Lo ha dimostrato più volte con noi ragazze… e ogni volta che incrocia il fachiro… non so perché… ma abbassa sempre lo sguardo.”
“Magari ha paura che lo converta allo yoga…”
“Che?”
“Nulla.” L’uomo si guardò intorno, nessuno. Tutto taceva. “A proposito… è vero che è un francese, il vostro sultano?”
La ragazza fece spallucce.
“Bah. Il prestigiatore lo chiama Philippe, ma lui se ne va sempre in giro con la tunica, e, che io mi ricordi, ha sempre quel turbante in testa… anche… anche quando… con me… con noi…” La ragazza esitò, la voce le divenne tremula.
L’uomo sollevò la mano sinistra, come a esentare la ragazza dal continuare.
“Stai tranquilla. Ora ci sono io. Non ti farà più alcun male...” Nella mente dell’uomo si stagliò l’immagine della donna cannone. Anche a lei, nessuno avrebbe più potuto far del male. “Comunque,” riprese poi, cambiando discorso, quasi a voler distrarre la ragazza dal rimembrare le sue esperienze col sultano, che, a giudicare dall’espressione angosciata apparsale in volto, dovevano essere state quantomeno raccapriccianti, “il tuo Boy, lì, nello stanzino, ha fatto un gran bel lavoro. Quando ho percepito oscurarsi la luce dell’abbaino, non avrei mai pensato che stessero, in quel momento, passandovi dieci metri di pitone… Stavo già recitando le mie ultime preghiere… Una fortuna che non sia finito io tra le sue spire…”
“Non è stata fortuna.” La ragazza era tornata al suo atteggiamento abituale di fredda sicurezza. “Quel bastardo si divertiva a tormentarlo… lo ustionava con le sue torce… gli sputava addosso le fiammate da quella fogna di bocca. Ero sicura che Boy non avrebbe esitato nello scegliersi la preda giusta.”
Erano ora a pochi passi dalla loro destinazione, un vagone scuro e semplice, vagone spoglio e nudo, vagone che di per sé, già dall’esterno, tratteggiava alla perfezione lo spirito e il carattere del misterioso fachiro che ivi viveva.
“Eccoci.” La ragazza indicò il carro. “Siamo arrivati.” Poi guardò l’uomo con sguardo pieno d’ansia e di speranza. “Mi porterai via, vero?”
“Certo.” L’uomo fece un fermo cenno col capo. “E non solo te...”
La ragazza spinse l’uscio, che si aprì silenzioso. Entrarono.
Nel buio dell’interno, la luce lunare illuminava l’unica suppellettile, un tappeto rosso su cui erano riprodotte, in nero, bianco, giallo e blu, stilizzate figure di fiori di loto e di ruote a otto raggi; il disegno arzigogolato di una fascia di nubi correva lungo tutto il perimetro del manto. Sul tappeto era adagiata una tavola di legno con innumeri chiodi irti e acuminati, le cui punte luccicavano al bagliore diafano che entrava dal finestrino senza sportelli ritagliato sopra la porta, unica sempre aperta via di comunicazione con l’aria esterna. Sui chiodi, una ossuta e orgogliosa figura giaceva supina. I muscoli correvano nitidi e bruni dagli esili piedi lungo le magre gambe su per il candido perizoma oltre lo scarno torace fino al volto antico dalla rada barba bianca e dalla pelle tesa. Il capo avvolto in un Dastar arancione completava il quadro, fosco nella luce della luna, ma chiaro come il sole per l’uomo dalla mantella, l’uomo che Lord Salisbury aveva destinato al Punjab prima che Kitchener lo facesse dirottare, per servirsi delle sue particolari abilità, nel Transvaal in piena rivolta.
L’uomo guardò la ragazza, e le fece un cenno di approvazione col capo. Quindi si avvicinò all’asceta Sikh immerso nei suoi simboli di purezza e di noncuranza della morte. Fu questi a parlare, senza apparentemente muovere le labbra, senza aprire gli occhi, senza interrompere la sua totale immobilità.
“Attendevo da tempo che giungesse una mano per aiutarmi a sconfiggere i cinque ladri.”
La ragazza si ritirò in un angolo, restandosene ferma e in silenzio.
“Ti sento. Ti vedo.” Riprese il fachiro, le labbra serrate, il petto senza alcun segno di respirazione. “E la tua pista non è pura. So perché sei qui.”
L’uomo dalla mantella attese. L’aura che l’asceta emanava annullava il tempo e lo spazio, e annullava ogni volontà.
“La tua Stella. La tua dannazione.”
“Sai dove si trova?” Il tono della voce dell’uomo dalla mantella, per la prima volta dacché aveva  oltrepassato il limite dello chapiteau, conteneva un riverbero di inquietudine.
“Se ti indicassi la via della perdizione, andrei contro gli insegnamenti del Guru Granth Sahib.”
“Devi dirmelo! Non posso andarmene senza... Sono anni che la sto cercando! Dimmi almeno se è qui!”
L’inquietudine, in iperbole, stava valicando la soglia della smania, facendosi agitazione.
“Uomo,” la voce del fachiro, serena e pacata, col suo solo timbro riuscì a riportare un velo di calma nel cuore dell’uomo dalla mantella, “qui sono i cinque ladri, e qui sono io per vincere su di essi. Qui tu sei venuto, come nella mia visione. Qui si compirà il mio destino, e il tuo.”
Seguì un lungo, interminabile istante di assoluto silenzio.
“Due ladri già porti tu con te... dovrai sconfiggerli per primi, se vuoi tornare alla luce.”
L’uomo abbassò il capo. In realtà, ne portava, con sé, tre.
Il fachiro continuò. “La ragazza, qui, ti accompagnerà da una persona. Lei potrà dirti ciò che io non posso, ma tu… dovrai proteggerla.”
La richiesta conteneva già, nel tono e nel timbro, l’impossibilità del rifiuto.
“Lo farò, chiunque questa persona sia.”
“È mia figlia.”
Sempre supino, sempre immobile, sempre con gli occhi chiusi, il fachiro rimase silente.
L’uomo sentì un freddo tocco al braccio destro. Era la donna serpente. Era tempo di andare.


Cesare Bartoccioni
4 maggio 2016

Nessun commento:

Posta un commento