Capitolo terzo
LA DONNA
CANNONE
“Ma ora
niente ciance…” la figura, tuttora in penombra, spinse delicatamente ma
decisamente l’uomo verso il letto, che occupava tutta la lunghezza del lato
lungo del vagone opposto alla porta, e la metà esatta dello spazio interno.
L’uomo,
istintivamente, si chinò verso il piancito.
“No,”
riprese in tono grave la figura, “non c’è spazio… non mi reggerebbe.”
L’uomo,
ancora chino, volse il capo all’indietro, sollevando verso la sagoma in ombra
il sopracciglio sinistro, con fare interrogativo.
“Sotto le
lenzuola.” Riprese il tono basso. “Non far lo schizzinoso.”
L’uomo esitò
un istante, quindi s’infilò il sigaro nel taschino interno della mantella dove
aveva riposto la Webley ancora fumante, e sollevate le lenzuola, nell’odore di
lavanda ch’esse trasudavano si nascose. Appena in tempo. La porta del vagone si
spalancò, spinta senza grazia né educazione.
Da sotto il
nascondiglio, l’uomo, che si era appiattito per non mostrar alcun visibile rigonfiamento
sul giaciglio, sentì chiara e tonante l’afona voce del sultano.
“È entrato
qualcuno, qui?”
“Stai
scherzando?” Rispose calma la voce grave. “Nessuno viene qui da settimane. Vi
ricordate di me soltanto quando accendete quell’infernale attrezzo. Ma cos’è
tutto questo trambusto, lì fuori?”
Seguì un
lungo silenzio. L’uomo dalla mantella immaginò che il buon pascià stesse, con
gli occhi aperti a metà, valutando l’ambiente interno del vagone, per
assicurarsi che non vi fosse davvero nessuno.
“Niente che
ti riguardi. Chiuditi a chiave e tornatene a letto.” Afona e ruvida, la voce
comandò. La porta si richiuse.
Un rumore di
passi che si allontanavano fu seguito da un silenzio ovattato.
“Ora puoi
uscire.” La voce era sempre bassa, ma ora aveva acquisito un tono di calore.
Scivolato
fuori dal gran talamo, l’uomo si rizzò, guardandosi intorno. A parte l’enorme
letto, l’interno del carro era quanto di più scarno e povero potesse esistere.
Un baule aperto in un angolo mostrava nell’incerta luce della sera una matassa
ingarbugliata di semplici vestiti e di costumi scenici decorati con perline e
brillantini. Due sgabelli lungo il lato opposto al letto, sotto un finestrino
semiaperto, completavano il mobilio.
“Purtroppo
ho ben poco da offrire ai miei visitatori. A me danno solo le briciole, che poi
son scarti di grasso degli spezzatini di carne che qui si mangiano tutti i
giorni.”
“Nessun
problema. Figurati. Anzi, ti ringrazio.” L’uomo si sedette su uno degli
sgabelli che la figura gli aveva indicato, e che a sua volta aveva l’altro
occupato. Ancora oscurato aveva il volto, sembrava che, chiunque fosse, quel
personaggio si portasse con sé la penombra, ovunque andasse.
“Vuoi dirmi
chi sei?” Accennò l’uomo.
La figura,
per tutta risposta, trasse dalle pieghe del vestito un fiammifero, lo sfregò
sotto lo sgabello, e lo avvicinò a un moccolo di candela appiccicato con la sua
stessa cera a un’asse rotta sotto il finestrino. La luce, lentamente, illuminò
il volto del fortuito anfitrione.
Lunghi
capelli neri, faccia rotonda, un pesante trucco ricopriva, come stucco, di
azzurro le palpebre, di carminio le guance, di scarlatto le labbra. Le
sopracciglia erano disegnate. Un collare di oro palesemente falso nascondeva
completamente il gozzo. Indossava un corpetto di velluto blu, una camicia
bianca di pizzo con maniche rigonfie. La gonna era di seta, verde pistacchio,
con vari segni di rammendi e vecchie macchie sbiadite.
“Sono la
donna cannone.”
L’uomo non
lasciò trasparire alcuna emozione.
“Donne
sparate, donne segate. Un bell’ambiente, non c’è che dire…”
La donna
scrollò il capo.
“No, uomo.
Qui nulla è come sembra. È tutta una sostituzione.”
“Fin lì
c’ero arrivato…” L’uomo tornò con la memoria alla conversazione poc’anzi
origliata, prima di saldare il conto al baro. Inchinò il capo verso la donna
cannone.
“Che ne è
delle ragazze che vengono segate?”
La donna
accennò un sorriso ironico.
“Se lo
chiedi, vuol dire che hai già qualche idea.”
L’uomo si
drizzò sullo sgabello. Inspirò a fondo l’aria profumata di lavanda del carro
della donna. Fu lei a rompere gli indugi.
“Vogliamo
dirci tutto? Come ti ho detto, non voglio aiutare te. Voglio aiutare me. Sono
stufa, sono stanca, voglio andarmene via, lontano, e non tornare mai più. E
forse tu, per me, sei la chiave d’uscita da questa vita meschina a cui son
stata obbligata.”
“Obbligata…
da chi?”
“Dal
sultano, e chi sennò?”
“E come può
obbligarti? Non puoi andartene, semplicemente?”
“Una ragazza
un tempo ci ha provato. Han ritrovato il suo corpo in sei parti diverse della
città.”
L’uomo lascò
passare un istante di assoluto silenzio.
“Forza,
dimmi tutto.”
“No.”
Scrollò decisa e con enfasi il capo la donna. “Prima tu. Io devo potermi
fidare.”
L’uomo
espirò la lavanda che aveva a pieni polmoni poco prima inalato.
“Beh…
anch’io devo potermi fidare. È vero che mi hai salvato, almeno al momento. Ma
potrebbe essere una trappola. Oppure potresti usarmi come moneta di scambio per
qualche contropartita col sultano.”
L’uomo
poggiò la mano sinistra sulla spalla destra della donna. Era molle e cedente,
dava una netta sensazione di debolezza.
“Facciamo
così,” riprese l’uomo, “tu mi dici qualcosa che mi faccia capire che non stai
facendo il doppio gioco, quindi io ti dirò tutto di me, senza nulla
nasconderti.”
La donna
sbuffò.
“Siete tutti
uguali.” Poi, dopo un lungo momento d’indecisione, sbottò. “E sta bene! Ti dirò
qualcosa, non tutto. Consideralo un antipasto.”
“Sto
ascoltando.”
La donna
respirò rumorosamente, a più riprese.
“Il mago, lo
Chemin, non conta nulla, è solo un pupo. È il sultano che comanda, che tra
l’altro è un francese, come il suo compare prestigiatore. Qui tiene tutti sotto
il suo tallone, fa star bene chi ben lo serve, distrugge chi gli si oppone.”
“Dimmi
qualcosa che non so.”
“Qualcosa
che non sai? Va bene, lo avrai. Io stessa, prima di questa bella carriera in
artiglieria, fui segata in due. Anch’io, come le altre, ebbi la sciocca idea di
offrirmi, quando, rapita e sbigottita davanti alle luci posticce del Circo
d’Oriente, volli far parte della scena, ed entrai nella cassa. Da quella volta,
non son più uscita.”
“Com’è il
trucco?”
“Il trucco?
Ah, non lo so, so solo che mi sentivo soffocare, non avevo quasi più aria,
tanto quel loculo era sigillato, e poi, quando la cassa fu aperta, lì nella
cucina da campo…”
“Cucina da
campo? Come? Perché nella cucina da campo?”
“Perché è lì
il passaggio, uomo. È li che le ragazze vengono…”
Un rantolo
soffocò la frase in gola alla donna.
L’uomo si
voltò di scatto verso il sibilo che era entrato dal finestrino socchiuso. Poi,
d’istinto, seguì con lo sguardo la memoria della traiettoria già compiuta. Dal collare
posticcio spuntava il manico romboidale appuntito di un brunito coltello da
lancio.
Prontamente,
l’uomo si alzò, impugnò la Webley con la destra, e la puntò oltre lo sportello
che, con la sinistra, aveva spalancato.
A dieci
passi di distanza, avvolta nel crepuscolo ormai già immerso nella notte, il
braccio destro ancora steso nell’atto del tiro verso il vagone, stava una
sagoma snella e minacciosa, nella quale l’uomo dalla mantella riconobbe il
lanciatore di coltelli che aveva aperto quella sera, coi suoi tiri infallibili,
lo spettacolo circense.
La sagoma si
mosse, il braccio si abbassò alla cintola, e un altro coltello apparve nella
mano del lanciatore. La lama lunga e larga formava col manico un disegno a due
rombi entrambi terminanti a cuspide, ben bilanciati in equilibrio perfetto tra
loro, di modo che il bersaglio, da punta o impugnatura, con alta probabilità
sarebbe stato infilato.
L’uomo dalla
mantella conosceva bene lo strumento. Ne aveva usati parecchi, un tempo.
La sagoma
sollevò il braccio, nell’atto del lancio.
“Non si
viene armati di coltello a uno scontro a fuoco, ragazzo.”
L’uomo tirò
il grilletto due volte, la prima palla fece saltare di mano il coltello al
lanciatore, la seconda gli trapassò il cranio. La figura cadde al suolo all’indietro,
rigida, senza un gemito.
All’interno
del vagone, nulla c’era più da fare, per la donna cannone.
“Beh… ora
sei libera.”
Era tempo di
muoversi. Gli spari avrebbero certamente radunato sul luogo la feccia.
L’uomo
scivolò oltre la porta del carro, aggirò la pozza di sangue che si era diffusa
dal cranio scoperchiato del lanciatore e si diresse verso il tendone
principale, tenendosi chino lungo i vagoni alla sua destra. Sentì già passi e
grida dirigersi verso la scena appena lasciata. Bene, pensò, i suoi inseguitori
sarebbero stati impegnati lì per qualche tempo. E ora lui aveva un indizio, una
pista da seguire.
Cesare
Bartoccioni
24 aprile
2016
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