Capitolo
secondo
L’IRA DI
ATENA
Bronzea panoplia superba schierata, linee in
armi al confronto disposte, dory in resta e oplon all’arto, Maris d’Atene alla
testa dei suoi, nobile altero sicuro di sguardo; Clas spartiate, lambda dipinta
su fulgido scudo, fiero lochagos di cento al comando; giunti a distanza al
canonico stadio, pronti a pugnar, per gloria ed onor.
“Voglio veder se te la cavi, ora, con la tua accozzaglia!”
Grido di sfida, ridente e rabbioso, orgoglio spartano, nere pupille, nero
cimiero su kranos dorato.
“Son qui che ti aspetto, a te e alla canaglia!”
Ilare Maris, aperte le braccia, a lotta invitante, attende pacato, corazza
ramata, ramati schinieri, argenteo xiphos a destra impugnato.
Re e arconte, su dolce declivio, il bellico campo
sul piano miravan.
“Vuoi muover tu, una volta tanto?” Leonida
beffardo, occhi ridenti, accenna gentile alle schiere in attesa.
“Per carità. Non sia mai che ti privi l’assalto.”
Temistocle allegro, braccia conserte, le spalle al collo indolente portò.
Alzò, l’eracleo, superbo la mano, e il flauto
di Sparta la marcia sonò. Mosser gli opliti, com’un sol uomo, falange perfetta,
sicura e diretta.
D’Atene gli armati, dorati, ramati,
argentati, vermigli, foggia d’ogn’uom, ognun di sua foggia, il passo batteron,
anch’essi avanzando.
“Che triste spettacolo, arconte, mio amico...
Ma perché Atene non li veste con garbo, quei suoi bei soldati, distesi nel campo,
che paion spaiati?” Sussulto nel petto, il riso trattenne, il faceto Leonida.
“Bah... non stiamo sempre a guerra pensando, noi,
mio generale. Da noi, lo sai, quand’è bisogno, ognun s’arma qual par meglio, e
in base al gusto e al proprio credo ogn’uom si sceglie il suo corredo.”
“Sì, corredo funebre io vedo… libere elezioni
al loro estremo… sublimazione dell’utopia, che voi chiamate democrazia...
Perché, mio caro, da quel che pare, i vostri alla tomba paion andare...”
Falange
ateniese, dietro al compagno ogn’uom si ripara allo scudo di destra, e il
fianco sinistro, marciando siffatti, presto scoperto in difesa resta. Gli
opliti di Sparta, sul lato d’onor coi lor veterani, mantengon la fila formata e
perfetta, e aggiran a manca l’avversa centuria, che già nell’impatto scomposta
ripiega. I dory spartani, calati dall’alto, i cimieri d’Atene batton in
scherno, cantando contenti qual suon di campana, con voce gioiosa il loro peana.
“Ma che stann’a fa’?”
“Come che stanno a fare, Ares...? Si stanno addestrando.” Atena,
dagli occhi di cielo e capelli corvini, scosse il capo sconfortata, lanciando
un’occhiata di disprezzo verso il fratellastro che, seduto e annoiato, la
schiena poggiata su un grosso tronco d’olivo, dal Monte Olimpo rimirava la
scena che, fino a poco prima, aveva inteso come preludio di sanguinaria
battaglia.
“Ma che noia...” sbuffò l’imberbe Ares, “ahó... è n’ora che sto
qua, e manco ‘na stilla de sangue, e quelli sarebbero guerrieri?”
Atena gli si avvicinò, lasciando per un istante il telaio su cui
stava tessendo fili di luna e di tramonto.
“La guerra, caro mio, non è solo scontro, sangue e morte. Anzi. La
guerra è una scienza. È un’arte nobile, è più astuzia che forza. Hai visto come
lo spartiate ha diretto i suoi, approfittando dello sbandamento verso destra
della formazione avversaria?”
“Bah... la guera è guera... vòi pugnà, te prenni ‘no xiphos,
l’affili, e cominci a tajà... guarda l’artro, va’, per esempio...”
Sol Maris
infatti, a piè fermo si pone, bronzeo lo scudo e ligneo lo sguardo.
“Lasciatelo
a me!” fu l’urlo di Clas, e tosto gli opliti ergon teatro, il cerchio formando
di aspis argivo.
“Ti avevo
detto che ti aspettavo. Onore a falange, da te ben condotta, ma ora a noi due, ci
tocca la lotta.”
“Ecco, quello sì, ch’è un guerriero, no? Mi ricorda il grande
Achille, eh?”
“Già... ma l’altro mi ricorda lo scaltro Ulisse. Non credo che il
tuo beniamino abbia tante speranze.”
“Beniamino? Ah, così se chiama?”
Atena inspirò una lunga boccata dell’eterea aria d’Olimpo. Poi,
scoraggiata, sbuffò rumorosamente.
“Ares... non so proprio cos’abbia mai potuto trovare in te la
bella e raffinata Afrodite. Proprio non lo so.”
Ares si erse in posa, gonfiando i pettorali e indicandoseli.
“Come? Guarda un po’ qua, eh?”
“Già...”, Atena abbassò gli occhi, rimirandosi i piedi, “Dea
caritatevole... piena d’amore fraterno...”
“Ma che stai a ddi’, eh? Dai, guarda giù, che ce fanno. Mo’ lo
squarta, veh?”
“Ares... t’ho già detto che è un’esercitazione!”
L’urlo rabbioso d’Atena furiosa gelò per un attimo l’Olimpo, e sul
mondo dei mortali gli olivi si piegarono e le civette in pieno giorno volarono.
“Eh, su, che t’arrabbi, ma che è, eh?”
Atena chiuse gli occhi, espirò lentamente, ricomponendosi, e
riprese il discorso con tono più placido.
“Ares… È un’esercitazione, come ti ho detto. Si stanno preparando
per poter combattere insieme contro quel...”
“Dai, no! Come? Niente sangue? Che barba, ragazzi. E come se fa a
sape’ chi vince, eh?”
Atena tese
le mani verso il collo del glabro giovane. Poi, come ripensandoci, gli posò i
delicati palmi sulle muscolose spalle.
“Stai tranquillo, Ares. Tengo io il punteggio...”
“A noi due,
Ateniese!” Gettato il dory, afferrato lo xiphos, Clas di Sparta saluta
marziale.
Risponde al
saluto, Maris d’Atene, e pronto al duello ardito si pone.
“Che ne dici di nostro figlio, Zeus?” Era, sguardo intenso, seduta
sul trono in cima all’Olimpo, il polos in capo, rigirava fra le mani una rossa
melagrana.
Zeus, disteso sul fianco ai piedi del trono, si passò l’indice
della mano destra tra i peli della folta scura barba, arricciandoli. Osservò
Ares con una smorfia di disgusto.
“Dico che avrei dovuto affogarlo appena nato.”
Cesare
Bartoccioni
Idi di marzo
dell’anno di grazia 2016
Rimaneggiato in poema epico, per disfida di Clas di
Sparta, il 22 aprile 2016
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