I due titani - capitolo terzo: I duellanti



Capitolo terzo
I DUELLANTI

Lo scudo e la spada s’affrontan furenti, clamor di metallo, digrignano i denti i due forti campioni, pugnando, calciando, fendendo e schivando, tra grida incitanti dal cerchio d’opliti che gli aspis percuoton in bronzeo boato.
Attacca diretto l’impavido Clas, e Maris lo xiphos con l’oplon gli devia, poi rotola a terra infilzando dal basso, ma sol l’aria trova, che Clas acrobatico al capo gli vola, finendogli dietro e la fronte aspettando.
“Non colpisco alle spalle, ma Moira t’attende, caro ateniese!”
“Qual delle tre, o mio buon spartiate?” Beffardo Maris in guardia si mette.
“Per Cloto sei un po’ oltre i tempi, mi pare.” Rotea giocandola sul palmo la spada.
“Beh, vediamo chi il filo di noi ha più lungo, oh lacedemone, vien qui a misurare.”
Finge Maris l’affondo mancino, e lo scudo di Clas, l’esca abboccando, il fianco gli scopre, ma colpo di reni, pronto e possente, e la lama ateniese il sol vento fende. Si volge Clas, l’aspis ruotando, battendo lo xiphos su rame tonando.
“Bella mossa, gran nobiluomo, ma ti ci vuol ben altro binomio.”
Assalta Clas con scudo di fronte, risponde di Maris l’argivo metallo, fa perno sull’aspis il furbo spartiate e spada al contrario rabbioso impugnando colpisce all’indietro mirando sul fianco, ma Maris d’Atene, gran veterano, qual nulla l’abbassa, il rapido ferro, poi con la sinistra in un sol movimento il vigor d’attaccante batte sul mento e scalzando da Clas l’elmo corinzio i due si ritrovan al punto d’inizio.
“Ne avranno ancora oggi per molto?” Arconte ammiccando e il volto abbassando al re si dirige toccandogli il manto.
“Mah… le solite due o tre ore io conto… Perché, hai qualche impegno, o arconte fecondo?” Leonida tranquillo assorto guardava con grande attenzione il suo nero campione in tal guisa intento a singolar tenzone.
“Beh… sembra che il pargolo con poco tatto… abbia dell’Athos un’isola fatto.”
“Che?”
“Un canale. Per flotta passare.”
Grassa risata Leonida sganciò.
“Ah! Il buon Mardonio, per buona misura, vuol evitare la vecchia figura!”
“Già… ma io mi sto ben preoccupando, a rider non sento il sen dedicando…”
Leonida fraterno l’arconte abbracciò.
“Tranquillo, mio amico, niente è questa guerra in confronto agli intrighi che già stan tessendo intorno al tuo ruol nella bella Atene d’invidia crogiuol; ci mettono un attimo, un due sol mattine, a farti di Ipparco far la bella fine…”
Spallucce Temistocle fece sbuffando.
“Bah! Lui a tirannide volea ritornar, con l’achemenide aiuto invocar, mentr’io alla sua tana lo vo’ ricacciar!”
Sulle spalle una pacca, Leonida fraterno, all’arconte batté.
“Certo, certo, tu lo vedrai, quando sarà finita, poi mi ridirai…”

“Due ore? E chi resiste? Mo’ me ne vo. E comunque, cara sorella, non mi sembra che stiano scherzando.”
Atena, il capo ciondolando, ormai rassegnata, volse le spalle allo sbarbato fascio di muscoli.
“Sorellastra, prego. Ad ogni modo guardali bene, Ares, non si danno affondi mortali, è un duello al primo colpo.”
“Sarà, ma io me so rotto. Chissà, forse un domani una nuova civiltà mi renderà gli onori come si deve, cor sangue e co’ spettacoli de morte.”
“Già, e magari le porterai in dono la lingua, altrimenti come farà tal civiltà a esprimere certe finezze…?”
“Ahò, te saluto, Atena.”
Atena restò sola, sul prato d’Olimpo, le braccia raccolte in seno, a rimirar le mortali gesta.
“Come sta andando?”
La voce, dolce, ferma e calda, infuse all’aria la pienezza dell’appagamento.
Atena si volse, fissando lo sguardo sui brillanti e verdi occhi incorniciati da ricce chiome color d’aurora.
“Mah… per il momento uno pari.” Atena accennò verso il bordo del giardino, donde Ares era uscito. “Senti, Afrodite, ma che ci trovi in tipi simili?”
La più bella fra le belle inspirò ed espirò, con un’indefinibile espressione di sconcerto sul volto.
“Che devo dirti, Atena, sorella mia… Sarà l’attrazione degli opposti…”
“Sì, va bene, ma di che puoi parlare, con simil attrezzo…?”
“Eh, non è che devo parlarci... Comunque hai ragione, è un bell’attrezzo. Ad ogni modo, chi pensi vincerà?”
“Vincerà il mio!” La roca interruzione fece volgere i begli occhi a entrambe le dee. Al limite del giardino, a passo spedito e alato, Ermes entrava irruento.
“Staremo a vedere, ma non credo che oggi avrai l’onore di accompagnar anime da mio zio.” Afrodite mantenne gli occhi, ora di fredda giada, su quelli di Ermes finché egli non abbassò i suoi.
“Bah… a me interessa solo che vinca il mio spartiate, poi so ben io come premiarmi, bella callipigia…”
“Sì, certo, sogna, sogna, protettore d’avvoltoi.” Afrodite, indispettita, sollevò l’azzurro peplo in sarcastico anasyrma.
Ermes indicò giù in basso.
“C’è poco da sognare, ormai è certo, guarda un po’…”

Fingendo sul manco, Clas col piè suo il destro ateniese arresta d’un lampo, e Maris in terra giù si ritrova, con l’oplon via ormai rotolando. Blocca lo xiphos Clas col suo scudo e il finale fendente vittorioso appronta.
“Ehi, guarda un po’!” Leonida trionfante entusiasta si erge. “Stavolta non van a pareggiar, e indovina un po’ chi vincerà…”
Ma in giorno di calma e d’aire sì fermo, folata improvvisa la polvere eleva che dritta e precisa del fiero lochagos il nero occhio annebbia severa, la vista offuscando un solo momento: e un momento bastò, al Maris che s’alza risorto dal suolo, e l’aspis ritrova e il ferro riprende e torna a postura nel suo di pria ruolo.

“Per Zeus!” Ermes già eretto in pregustazione del bottino che Afrodite sfrontata in scherno gli mostrava, si fece viola in volto. “Questo è uno dei tuoi trucchi!”
“Ma che stai dicendo! Ti ho promesso una partita leale, e poi, sinceramente, io a ben altri artifizi sarei avvezza.” Lentamente Afrodite rilasciò il panno ricoprendosi le sode curve.
Incontinente, incapace di frenare lo spasmo insoddisfatto, Ermes indignato e rabbioso si alzò dirigendosi verso il bordo del parco.
“Basta! Me ne vado!” Poi, sul ciglio del giardino, si volse ad Afrodite, un’espressione demoniaca stampata sul volto. “E in quanto a te… aspettati il peggio!” Scomparve quindi, sulle orme di Ares.
“Ma di che parlate?” Le palpebre di Atena erano socchiuse in un’espressione di scherzosa severità.
“Bah… niente, uno dei nostri giochetti.”
“Quali giochetti? Di che favellate, sorelline mie?”
La voce, argentina e gioviale, empì l’olimpo d’allegria. Le due si volsero, e posarono lo sguardo sul bianco cervo che avanzava con elegante incedere. Le pupille quindi sollevarono sulla bella giovane dai grandi occhi scuri che seguiva l’animale, i lunghi capelli dorati le ricadevano ondulati e fluenti sulle spalle.
“Artemide!” Atena sollevò le braccia allegramente, e abbracciò l’esile fanciulla, la quale, ricambiata la stretta, indicò la terra mortale al di sotto.
“Chi sono quei due? Ah, sì… li riconosco! I famosi lottatori! Ne ho sentito molto parlare, durante le mie battute di caccia tra le foreste dell’Attica. Certo non mancherà lor qualche cantore che n’eternerà le gesta…”
“Certo, come no?”, sorrise Afrodite ironica, “Qualche retore affetto da incurabile prosopopea lo trovano di sicuro.”
Artemide si sporse sul ciglio del parco, incuriosita.
“Chi sta vincendo?”

“Nessuno, generale mio caro, nessun come sempre…” Temistocle le mani guardandosi, ansioso il discorso riprende, sul pericolo del pargolo Serse. “Piuttosto, preoccuparci dovremmo…”
“Preoccuparci?” Leonida il braccio sollevò, e sconsolato il duello cessò, affogando felicità in ennesima parità. “Preoccuparci di uno che, per far passar naviglio, a tagliare un monte si mette con piglio, quando potrebbe approvvigionarsi, per terra tranquillo senza impegnarsi?”
“Ah, mio buon soldato! Non è tanto bellica questa questione, è di propaganda la commistione!”
“Bah.” Leonida con gesto stizzito la mano alza, quasi a scacciar dell’achemenide tanta baldanza.
Temistocle ribatte, furente, sulla minaccia immantinente.
“Ahh! Questa è politica gran sottigliezza! Pensaci, Leonida, in tutta interezza! Ellesponto achemenide ha già traversato, e per di più ei l’ fé fustigare, per aver esso indomito osato il primo ponte di barche affondare. E ora il canale, opera immensa! Quante città con lui passeranno, dopo aver visto tanta opulenza?”
“Mah… a occhio, Tebe, magari Larissa, e forse Argo, più in odio a noi, che in Persis fissa…”
“Ecco, vedi che a capir cominci?” L’arconte le mani sulle spalle del re Leonida di Sparta tenero pone. “Qui consiglio tener bisogna, caro Leonida, trovar a questo periglio rifugio, e farlo subito senza indugio.”

“Due pari. Ora me ne torno al telaio… e comunque, mia cara Afrodite, quel colpo di vento anche a me è sembrato sospetto…”
“Vi saluto anch’io, ragazze, vado a insegnar un po’ di tiro con l’arco a Dioniso, magari riesco a raddrizzarlo un po’…”
Rimasta sola, Afrodite si lisciò la veste, che aveva tanto irretito, nel sollevarsi, il dotato Ermes.
Una bianca testa spuntò da un cespuglio lì vicino, testa rotonda ridente e ammiccante.
Afrodite gli volse un brillio di giada, e un sorriso riconoscente.
“Grazie, Eolo.”


Cesare Bartoccioni
Giorno di Pasqua del 2016
Rimaneggiato in poema epico, per disfida di Clas di Sparta, il 22 aprile 2016

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