Conti e Baroni - fantascienza

CONTI E BARONI

“Che ne dici?”
La figura alta, ammantata di nero da capo a piedi, sollevò gli occhi dallo schermo, fissando lo sguardo sul giovane avvolto di bianco che gli stava accanto come un discepolo.
“Mah... azoto, ossigeno, argon... vapore acqueo... direi che ci siamo.”
“Mmmh... dai un'occhiata a questi livelli di isotopi, qui, in mezzo a questo deserto, e poi qui, dall'altra parte di questo enorme mare, in fondo a questo arcipelago.”
La figura in nero indicava al discepolo alcuni punti in una mappa riportata sullo schermo. La sua voce aveva un tono preoccupato.
“Non mi sembrano consoni alla morfologia del luogo.”
Il ragazzo in bianco sollevò il capo fissando il maestro con uno sguardo vagamente ebete.
“Ma... dici che l'han fatto loro?”
“Dico. Secondo me hanno scherzato un po' troppo con gli elementi, o magari si son fatti qualche guerra sperimentando quei congegni che, purtroppo, conosciamo bene...”
“Eh già... altrimenti non saremmo dovuti venir fin qui. Embè?”
Lo sguardo del discepolo non aveva accennato il minimo cambiamento.
“Embè... per usare la tua espressione... ho paura che i tizi che abitano qui potrebbero rivelarsi pericolosi.”
“Mah... tocca anda' a vedere, no?”
Il nero sospirò con un'aria sconsolata. Erano 435 anni che cercava di istruire il discepolo, da quando avevano lasciato il loro sistema, diretti a questo mondo nuovo a soli 4,22 anni luce di distanza dal loro pianeta, reso ormai inabitabile dagli ordigni deuterio-trizio usati nella faida tra le due famiglie che si disputavano il trono. Niente più trono. Niente più famiglie. Niente più pianeta.
435 anni di tribolazioni nel vano tentativo di far entrare un po' di scienza, e un po' di buona dizione, in quella testa vuota. Il suo senso di abbattimento, tuttavia, era esasperato dal fatto che quella testa vuota costituiva la mente più brillante tra tutto il piccolo seguito che erano riusciti a portarsi dietro.
Prevedeva grossi guai.
“Certo, figlio mio, certo.” Lo chiamava 'figlio mio' solo in senso magistrale. Il pensiero che potesse davvero trattarsi di un suo figlio carnale gli rivoltava tutta la massa cerebrale. “Bisogna andare a vedere. E ci andrai tu.”
“Bene, bene! Dove atterriamo? Atterriamo qui?” Il discepolo indicò un punto a metà tra i due picchi di radiazioni isotopiche appena rilevati. Il suo sorriso trasformò l'espressione del volto da ebete a gongolante.
Il maestro abbassò il capo, espirando lo sconforto tra le labbra socchiuse.
“Qui ci sono tremila metri d'acqua...”
“Ah. Però. Tremila!”
“Senti, figliolo. Ascoltami bene.” Il nero guardò il bianco dritto negli occhi, cercando un barlume, una scintilla, un segno di sagacia. Dopo alcuni secondi abbassò le palpebre e continuò a parlare a testa bassa, sperando soltanto che il discepolo lo stesse a sentire.
“La ricognizione va pianificata bene. Dobbiamo trovare un buon luogo che ci offra... riservatezza, ma che ci dia allo stesso tempo di che vivere per un periodo sicuramente lungo.”
“Ma dai, abbiamo i replicatori, no?”
“Sì, ma non sappiamo ancora se questi abitanti si possono considerare una risorsa o un pericolo. Nel dubbio, meglio prendere tutte le precauzioni, non trovi?”
“Va be', dai, va be'. Allora, dove andiamo, qui? Eh, qui? Qui non c'è l'acqua, no?”
Il bianco questa volta indicò una massa montuosa che faceva da cerniera tra un'estesa formazione di terre emerse e una vasta penisola triangolare.
Il nero stavolta espirò rabbia.
“Qui ci sono ottomila metri di montagna! Non ricordi il materiale sulle conformazioni di questo luogo che ti avevo dato da studiare?”
“Ah... le con...formazioni... no, non ci sono ancora arrivato.”
Il maestro appoggiò la mano destra sulla spalla sinistra dell'allievo; la smorfia di dolore che si disegnò sul volto del discepolo testimoniò la forza della stretta. Il nero ritrasse subito il braccio, quasi turbato dall'aver così facilmente perso il controllo, dopo appena 435 anni...
Dolcemente, indicò al discepolo lo schermo.
“Guarda,” gli disse con un tono di voce sacerdotale, “ho studiato i luoghi in modo approfondito, e ritengo che il posto migliore dove stabilirci sia questo.” Indicò una sottile striscia di terra che si allungava in un grande mare inglobato fra tre masse continentali.
“Non è un po' piccolo?”
Il nero strinse di nascosto i pugni, ferendosi i palmi con le unghie, ma stavolta la sua espressione non tradì alcuna afflizione.
“Ti ricordo che in questo momento ci troviamo a 400 chilometri di altezza... Ad ogni modo, caro figliolo mio... questa sottile striscia di terra presenta un clima adatto a nutrirci in ogni periodo dell'anno, inoltre potremo facilmente nasconderci tra le mille pieghe di questa lunga catena di basse montagne, vedi?”
“Sì sì... bene. Allora, dai, atterriamo!”
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“Barone?”
Il nero sollevò lo sguardo verso lo studioso in tunica azzurra che era appena entrato nelle sue stanze rivolgendogli la parola. Si sollevò dal trono di titanio che era riuscito a salvare dal palazzo del suo signore, prima di abbandonare il pianeta natale, e si mosse verso il suo primo scienziato porgendogli la mano.
“Oh, mio buon Malki-zadeq, che mi porti di buono?”
Lo scienziato scosse cupamente il capo.
“Niente di buono, purtroppo... Ho una grave, brutta, triste notizia.”
Il nero non disse niente: se l'aspettava. Il decadimento costante degli ultimi quattro anni non gli era sfuggito. Lo scienziato continuò.
“I malfunzionamenti che abbiamo iniziato a registrare quasi subito dopo il nostro atterraggio sono andati moltiplicandosi in intensità e gravità, e così rapidamente che...”
“Continua, mio buon amico, continua.” Malki-zadeq sovrastava il maestro di oltre due palmi, ma questi, nella sua tunica nera, con il suo sguardo austero benevolo e paterno, sembrava gigantesco.
“...che... non riusciamo più a far funzionare il propulsore. Né i replicatori. Né la strumentazione più elementare. Dall'ultima misurazione rilevata... insomma, dall'ultima prima della totale rovina dei nostri apparati... sembra che si tratti del kripton di questo pianeta... che provoca una specie di rigetto di tutte le nostre strutture. Non sono compatibili.” Lo scienziato era avvilito; cercò, a capo chino, di balbettare delle scuse. “Non lo avevamo capito, non siamo riusciti a...”
Il nero lo interruppe, lo sguardo sempre benevolo e paterno.
“Non è colpa vostra, amico mio. Nessuno poteva prevederlo. In fondo, quel gas rappresenta solo lo 0,000114 percento di questa atmosfera. A chiunque sarebbe parso irrilevante.”
Lo scienziato chinò ancora di più il capo, tanto che il suo volto venne a trovarsi all'altezza della fronte del maestro.
“Non sappiamo cosa fare, Barone.”
Il maestro gli diede due pacche amichevoli sulla spalla.
“Restiamo qui, amico mio. Faremo di questo pianeta il nostro regno.”
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“Che figata, Barone, incredibile!”
Lo sguardo del maestro fulminò l'allievo, che mutò la beatitudine del suo volto in un'espressione di furbesca sottomissione.
“Cioè... maestro... credo che questo sia proprio il posto per noi.” Il discepolo si guardò improvvisamente intorno, come se si fosse appena accorto di qualcosa. “Ehi, ma... che è successo qui? Ma guarda un po'... sto via solo dieci anni e qui va tutto in rovina, eh?”
Il maestro gli indicò uno sgabello accanto al trono. Il trono era lucido e brillante. Era l'unico oggetto di titanio presente nell'astronave. L'unico oggetto compatibile con l'atmosfera del pianeta, oltre alle tuniche di seta. Per il resto... corrosione ovunque, polverizzazione, liquefazione, scomparsa. Lo sgabello era di legno, di origine locale.
“Siediti, e raccontami.” Il tono asciutto del maestro non ammetteva deroghe alla sua richiesta. Da bravo scolaro, il discepolo si sedette.
“Beh, la gente è molto accogliente, amichevole, molto semplice nelle abitudini, mangiano benissimo, ho imparato molto della loro storia e della loro religione, pensa che c'era uno qui, un eroe, che era stato in prigione, o che aveva scritto di qualche prigione, boh, insomma, uno che aveva un nome simile al tuo, e poi un altro, che qui è molto amato, che ha scritto un libro su ciò che aveva fatto un predicatore, una volta, beh, quello ha un nome simile al mio, non è una coincidenza incredibile? E poi mi han detto che non hanno mai conosciuto prima uno più intelligente di me, pensa che mi hanno anche proposto di governare una loro città!”
Il maestro rizzò il capo e un'espressione sbalordita gli si stagliò sul viso. Se questi abitanti avevano considerato intelligente il suo pupillo... forse non tutto era perduto! Appoggiò la mano sinistra, stavolta con estrema delicatezza, sulla spalla destra del bianco, ora non più bianco, ma agghindato in orribili vestiti del luogo, con uno strano laccio di seta che gli serrava la gola... Mah, paese che vai...
“Possiamo trovarci bene?”
“Ah certo! Nessun problema! Sono un po' pazzerelloni, in realtà; si fanno le guerre di continuo, si dividono sempre in fazioni, anche nelle attività più innocenti e ricreative c'è sempre chi parteggia per l'uno e chi per l'altro. Insomma, una bazza.”
“Bene. Bene. Avevo concepito un progetto, nell'attesa del tuo ritorno e durante la lugubre contemplazione della rovina irreversibile dei nostri materiali... e questo tuo rapporto sul loro livello intellettivo mi conforta sulle possibilità di successo del piano.”
“Che piano, eh? Costruiamo una fattoria?”
Il nero inspirò rumorosamente e rapidamente. Trattenne il fiato alcuni secondi per poi espirare lentamente, come concentrandosi per impedirsi qualche gesto inconsulto. Poi fissò gli occhi sul discepolo, con uno sguardo duro e intenso che, finalmente, riuscì a calamitare, per la prima volta in 445 anni, l'attenzione dell'allievo.
“No. Ci infiltriamo.”
“Ci infiltriamo.” Il discepolo era ora come ipnotizzato.
“Con calma, senza fretta. Abbiamo un grande vantaggio su questi popoli: il nostro ciclo vitale è circa dieci volte il loro. Possiamo passare attraverso le epoche, attraverso le istituzioni, possiamo individuare i soggetti più adatti e farne dei servi, inserendoli nei posti chiave dei loro gangli economici, finanziari, militari, politici... La cosa importante è far loro credere di essere i Conti di questo mondo, mentre noi, di nascosto, ne saremo i Baroni! Hai detto che ti volevano far capo di una città?”
“Sì... come? Ah, eh, sì, sì. Posso? Dai, posso?”
“Con calma, ti ho detto. Non c'è fretta. Potrai... a suo tempo. Dobbiamo pianificare bene la cosa.”
“Ma... e dopo, quando noi saremo vecchi...?”
Il maestro osservò il discepolo, per la prima volta, con un sorriso di approvazione. Era la prima volta che gli sentiva esporre un'osservazione perspicace.
“Stai tranquillo. Come avrai potuto vedere da te, la nostra fisionomia non è poi tanto diversa dalla loro, a parte l'altezza... ma essendo bassi potremo passare, in fondo, meglio inosservati...”, il maestro si concesse un raro momento di autoapprovazione: il barlume, la scintilla di sagacia finalmente riscontrata nel discepolo gli aveva provocato una piacevole scarica di adrenalina.
Diede un paio di allegre pacche sul ginocchio del pupillo.
“In effetti, figlio mio, non c'è nulla che ci impedisca di unirci con loro. Non so quanto potranno poi durare le generazioni così create, ma questo si vedrà... Il difficile sarà trovare il modo di mantenere il segreto... ma, in fondo, una volta avviato il sistema, poco importerà... li avremo già dominati!”
Il discepolo stava per riaprire bocca, ma il maestro, tornato improvvisamente allo sguardo duro e intenso, lo squadrò dritto negli occhi.
“Un'ultima cosa... prima comincio io, se no qui va tutto a puttane.”

Cesare Bartoccioni
26 agosto 2015


Questo racconto è incluso nella raccolta Contrappunti.

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